martedì 7 maggio 2024

LUCHINO VISCONTI IN UN RICORDO DI M. T. GIORDANA. L’Alfa Romeo del giovane Luchino Visconti e l’incidente che ha cambiato la vita del regista, LA REPUBBLICA, 7.05.2024

 ROMA – Poco tempo fa è stata nuovamente messa all’incanto un’Alfa Romeo 1750 Super Sport che aveva già fatto la sua comparsa a Peeble Beach nel 2018 suscitando grande scalpore. L’auto, proveniente dal Sud Africa, dov’era stata esportata nel 1942, era appartenuta ai fratelli Nasturzio ed era una delle prime 1750 SS delle 121 prodotte dalla ditta milanese, carrozzata da Zagato e utilizzata soprattutto per le corse. L’auto in vendita non aveva più il suo vestito originale, sostituito da una carrozzeria in acciaio ugualmente elegante e di scuola italiana, destinata a vita civile anziché agonistica come rivelava l’assenza di sportelli (il regolamento dell’epoca obbligava ad averne almeno uno). Non sappiamo chi ne sia stato l’artefice e saremo anzi grati a chi sapesse darcene notizie.



La tormentata storia di quest’auto mi ha ricordato di un’altra 1750 appartenuta al campione Giuseppe Campari, all’industriale e gentleman-driver Enrico Wax e, prima ancora, alla famiglia Visconti di Modrone, ed ebbe un ruolo sventurato e cruciale nella vita di uno dei più grandi registi del Novecento.

Chinacci era il vezzeggiativo con cui in famiglia veniva chiamato Luchino Visconti, anzi il Chinacci, alla maniera lombarda. Discendente dai magnanimi lombi di una dinastia che dalla natìa Lomellina e dal Piacentino dov’erano feudatari vice-comites – da cui il cognome – avevano conquistato terre dal Vercellese alla Valtellina, da Verona e Belluno, senza trascurare il Senese e la Lucchesia, nonché esercitato la loro signoria su Milano dal 1277 al 1365.

Fu proprio Milano a regalare lo emblema araldico alla dinastia, come ci racconta Bonvesin della Riva nel suo De magnalibus urbis Mediolani: «Viene offerto dal comune di Milano a uno della nobilissima stirpe dei Visconti che ne sembri il più degno un vessillo con una biscia dipinta in azzurro che inghiotte un saraceno rosso…» quello stesso biscione che verrà iscritto nello stemma dell’Anonima Lombarda fabbrica Automobili al quale l’Ingegner Nicola Romeo, acquisendola dall’italo-francese Darracq nel 1909, aggiungerà il suo cognome.

Il Chinacci (1906-1976) era il quarto dei sette figli di Giuseppe Visconti di Modrone e di Carla Erba (erede dell’impero industriale chimico-Farmaceutico Carlo Erba) e diventerà il celeberrimo regista che tutti sappiamo, la cui influenza, dichiarata o negata che sia, ha avuto peso inimitabile nella storia dello spettacolo del dopoguerra essendosi estesa non solo sul Cinema (17 film, da Ossessione del 1943 a L’innocente del 1976, quest’ultimo, come il precedente Gruppo di famiglia in un interno, realizzato in precarie condizioni di salute a causa di un ictus) ma anche nel Teatro di prosa (40 spettacoli, da I parenti terribili di Cocteau del 1945 a Old Times di Pinter del 1973) e nel Teatro lirico (20 opere, da La Vestale di Spontini con la Callas del 1954 alla Manon Lescaut di Puccini a Spoleto del 1973), un’immensa fertile produzione sulla quale mai potrà scendere l’oblio.

I Visconti passavano parte delle loro vacanze a Cernobbio, non nella sontuosa villa commissionata a fine ‘800 in stile cinquecentesco da Luigi Erba e Anna Brivio ma in una che derivava da un ex- convento del XII secolo, trasformata in residenza ai primi dell’Ottocento. L’aveva ereditata il primogenito Guido (1901-1942), morto in guerra a El Alamein e lasciata in eredità ai fratelli con questa clausola, sempre rispettata: «Non dividetevi fra voi se non con ghirlande di fiori, unita la famiglia come la Mamma l’avrebbe voluta».

Al padre Giuseppe si deve invece la fantasiosa realizzazione di un borgo neo-medioevale a Grazzano, vicino Piacenza, intorno al castello di famiglia. Il borgo imitava le antiche case contadine e le botteghe degli artigiani, con scuole per maniscalchi, falegnami, fabbri e tessitrici che avrebbero fatto in seguito la fortuna del sito, a tutt’oggi suggestiva meta turistica. È proprio da Grazzano che parte la nostra storia, molti anni prima che il Chinacci diventasse Luchino Visconti di Modrone.

Una notte il giovane Luchino, ancora lontano dalle successive vocazioni (prima i cavalli da corsa, poi il cinema, dopo l’incontro del destino a Parigi con Jean Renoir, pronuba Coco Chanel), sveglia l’autista Marzorati e chiede di essere portato con urgenza a Milano. Non intende ragioni: l’ora tarda, la strada tortuosa, la nebbia che ai tempi rendeva tutto invisibile. Il Chinacci al volante, Marzorati al suo fianco, in piedi per vedere meglio la strada. L’auto esce di strada a una curva e, centra un pilone. Marzorati muore, Visconti è illeso.

Tale il senso di colpa che Visconti decide di lasciare Milano e partire per un lungo viaggio che lo porterà dalla Grecia all’Africa, prima in Tunisia, poi in Algeria sull’altopiano del Tassili N’Ajjer, al confine libico, poi nel Massiccio dell’Hoggar e sulle vertiginose montagne dell’Assekrem dove Charles de Foucault, prima di venir ucciso dai predoni nel 1916, ha costruito il suo eremo.

La figura di questo asceta, prima soldato, poi geografo, linguista e infine sacerdote, influenza a tal punto il giovane Luchino da fargli accarezzare l’idea di abbandonare il mondo e condividere la povertà dei seguaci di Foucault (che sarà fatto Beato nel 2005).

Non sarà così e Visconti diventerà l’artista che sappiamo, ma Marzorati non verrà mai dimenticato. Quando nel 1976 la sorella Ida Pace (da tutti chiamata Nane) metterà mano alle carte del regista, vi troverà la disposizione di un vitalizio mensile alla famiglia Marzorati, impegno morale che da allora sarà sostenuto dalla più piccola dei Visconti.

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