Già è difficile accettare la sfida e stare a
sentire l’infelicità – sempre poco credibile- dell’alta borghesia in un’epoca
dove l’alta borghesia è diventata altissima, distante come non mai da
quel 99% che vedemmo stampato sui cartelli nelle manifestazioni
anti-finanziarie appena qualche anno fa.
Si è, contro ogni rivoluzione passata o
sognata, di nuovo condannati, per nascita, ad essere neo-aristocratici e non si
dà alcun segno di ribellione o di fuga da quel mondo dorato.
Sarà
stato impossibile per le eroine di Cechov e di James (a cui il regista sostiene
di ispirarsi), ma qualcosa è accaduto nei decenni successivi.
Eppure
la nascita diventa, nuovamente, ciò che stabilisce il valore e il talento come
un marchio indelebile (Francesca, figlia di due architetti di talento, eredita
questa dote che riemerge del tutto istintivamente nella sequenza della
progettazione della stanza che serve da lettura). Alla fine, cosa cambia per l’economia simbolica dei segni fra una
donna talentuosa, architetta capace di materializzare la sua fantasia
progettuale in oggetti dalla bellezza algida ed accecante ed una donna che
diventa, essa stessa, un bell’oggetto da esibire nelle occasioni fastose e nei
ricevimenti dell’alta finanza (“Devo accompagnare mio marito ad un
ricevimento”)?
Francesca
è, in realtà, contesa fra due padri diversi (“Trovo molto interessante anche il rapporto che lei ha con il
marito. È un personaggio che tutto osserva e tutto determina, è come se in
qualche modo avesse in pugno questa donna, seppure così apparentemente
remissivo, silente, in realtà è quello più forte”, Intervista a IL MANIFESTO, 7-10-17)
e in competizione fra loro e che cercano entrambi di trasformarla nel prodotto
finale della loro immaginazione estetizzante ed ostensiva (sarà un caso, ma che
ci sia una stretta relazione fra archi-star –come pare sia Manfredi- e l’alta
finanza lo dimostrano le sontuose creature architettoniche di questi anni,
sorte, non a caso nelle città globali, sedi del cosiddetto capitalismo
finanziario dominante).
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