Interrogarsi sul rapporto tra cinema e Resistenza in Italia significa esplorare le forme e i modi in cui, dal finire della guerra a oggi, le immagini in movimento hanno dato conto di una serie di passaggi storici contribuendo a costruirne il significato in una connessione ineludibile tra passato e presente.
Il racconto cinematografico della lotta di Liberazione ha vissuto diverse fasi. La prima riguarda le produzioni realizzate a caldo, documentando o ispirandosi alla cronaca di avvenimenti appena accaduti se non addirittura in corso.
IL CINEMA NEOREALISTA
La figura più rappresentativa di tale stagione è naturalmente quella di Roberto Rossellini, che con Roma città aperta (1945) riesce a portare sul grande schermo l’esperienza sconvolgente e del tutto nuova di una visione cinematografica in continuità con la vita stessa.
Lo ha confermato Alberto Asor Rosa rievocando in L’alba di un mondo nuovo (Einaudi, 2018) l’emozione provata con un’affollatissima platea romana di fronte a quella storia: «Il pubblico in sala, cioè noi, cioè io, mia madre, la nostra vicina del piano di sopra, il droghiere del negozio all’angolo, la vecchia signora della portineria, l’elettricista che ci accomodava la luce, il manovale delle Ferrovie con una gamba più corta, il pensionato che viveva in una delle cantine del sottoscala, stavamo tutti lì, a occhi spalancati e a bocca aperta, a vedere che cosa diavolo ci era capitato in quei così vicini mesi terribili».
Il cinema neorealista ritrova così, dopo il ventennio, non soltanto una nuova intensità emotiva ma una funzione conoscitiva facendosi «lente d’ingrandimento posata sul fuori quotidiano» come ha scritto Calvino nella sua Autobiografia di uno spettatore. Se il capolavoro di Rossellini è il più emblematico di un cinema che non è solo sulla ma della Resistenza, se ne possono ricordare anche altri, quali Giorni di gloria (1945), realizzato da Mario Serandrei e Giuseppe De Santis con Luchino Visconti (che riprende il processo al questore di Roma, compreso il linciaggio del direttore del carcere di Regina Coeli) e Marcello Pagliero (anche interprete di Roma città aperta, che firma la scoperta delle Fosse Ardeatine).
Più al nord, Aldo dice 26x1 (1945-1946) di Fernando Cerchio si presenta come un documentario dedicato alla Liberazione del Piemonte, ma contiene molte scene ricostruite ad hoc. Il titolo rinvia al telegramma in codice con cui il Comitato di liberazione nazionale (Cln) Alta Italia incitava all’insurrezione.
Con il sostegno dell’Anpi milanese, l’Associazione nazionale partigiani d’Italia, si produce invece Il sole sorge ancora (1946) di Aldo Vergano, che ha visto la collaborazione come sceneggiatori di Guido Aristarco, Giuseppe De Santis e Carlo Lizzani (anche attore nella parte di un prete operaio) oltre alla partecipazione di molti altri intellettuali marxisti, da Alfonso Gatto a Gillo Pontecorvo.
All’insegna dell’ibridazione tra documentario e film a soggetto si possono rivedere anche i sei episodi che compongono Paisà (1946) di Rossellini, dove le immagini girate dai cineoperatori di guerra con commento fuori campo introducono, contestualizzando in modo quasi didattico, delle narrazioni in cui la finzione fa emergere la realtà, ovvero come si viveva e moriva durante l’avanzata alleata lungo la penisola dalla Sicilia al Veneto.
Se negli anni Cinquanta la prima fase di tensione testimoniale può dirsi chiusa con lungometraggi a soggetto quali Achtung! Banditi! (1951) di Carlo Lizzani e Gli sbandati (1955) di Citto Maselli; ne aprono una nuova Il generale Della Rovere (1959) sempre di Rossellini (con la complicità di De Sica) e La Lunga notte del ’43 (1960) di Florestano Vancini, che l’autore ha descritto così: «Il primo film italiano che affronta la Resistenza come guerra civile. Fino ad allora, il conflitto principale del cinema resistenziale era quello tra il patriota italiano e l’oppressore tedesco. Il mio film è il primo che mette in scena quel conflitto tra fascisti e antifascisti che è sempre stato negato».
VERSO GLI ANNI SESSANTA
Sono gli anni del governo Tambroni sostenuto da una maggioranza di cui fa parte, per la prima volta, anche il Movimento sociale italiano. Un contesto che catalizza il “boom” del cinema resistenziale degli anni Sessanta dando anche al cinema di montaggio nuova forza politica, a cominciare da All’armi siam fascisti (1962) di Lino Del Fra, Cecilia Mangini e Lino Micciché, con testo di Franco Fortini.
Negli anni Sessanta si consolida anche l’idea di salvaguardare e raccogliere immagini e voci di quel tempo. A Torino, per esempio, il partigiano Paolo Gobetti, figlio di Ada e di Piero, ha l’idea di un archivio che riunisca tutti i materiali filmici relativi alla storia del Novecento considerandoli quali fonti nuove e non trascurabili per la scrittura, la comprensione e la didattica della storia.
Da una costola dell’Istituto storico della Resistenza, nasce allora nel 1966 l’Archivio nazionale cinematografico della Resistenza, divenuto autonomo nel 1970, sotto la presidenza di Franco Antonicelli, già a capo del Cln piemontese che in quello stesso anno, a un convegno su cinema e Resistenza a Venezia, presenta il recupero delle pellicole realizzate durante la lotta dal prete partigiano e cineamatore don Pollarolo.
L’allora senatore si impegna anche nelle campagne di raccolta di testimonianze condotte in tutto il Piemonte e presta la propria voce a Lotta partigiana (1975) di Gobetti e Beppe Risso, primo film che su repertori e ricostruzioni a caldo monta il commento audio di autentici partigiani e la musica di Luigi Nono.
IL RUOLO DELLE DONNE
Dagli anni Sessanta-Settanta, una mutata sensibilità contribuisce a mettere a fuoco il ruolo delle donne: Liliana Cavani (che riceverà quest’anno a Venezia il Leone d’Oro alla Carriera) firma per la Rai il pionieristico documentario La donna nella Resistenza (1965) mentre, sul fronte della finzione, vanno citati almeno Agnese va a morire (1976) di Giuliano Montaldo, dal romanzo di Renata Viganò, e Libera amore mio! (1975) di Mauro Bolognini che affida a Claudia Cardinale (già La ragazza di Bube dieci anni prima) il ruolo di una staffetta anarchica la cui disillusione è coscienza critica in un paese non defascistizzato.
In anni recenti, diverse opere indipendenti hanno scandagliato gli archivi raccogliendo ulteriori materiali sul tema: La combattente di Adonella Marena (1998), Staffette (2006) di Paola Sangiovanni, Indesiderabili (2010) di Chiara Cremaschi, Nome di battaglia donna (2016) di Daniele Segre, Libere (2017) di Rossella Schillaci, Alba Meloni. Stella nelle mie stanze (2021) di Nadia Pizzuti.
TRASPOSIZIONI LETTERARIE
Altro filone trasversale e mai esaurito è quello delle trasposizioni letterarie – si pensi al Meneghello de I piccoli maestri (1997) di Daniele Luchetti, al Fenoglio e all’idea di “resistenza tradita” de Il partigiano Johnny (2000) di Guido Chiesa o a Una questione privata (2017) di Paolo Taviani – senza dimenticare opere in cui a dare forma allo sguardo registico sono l’epica e il mito come ne La notte di San Lorenzo (1982) dei fratelli Taviani, ampio racconto corale d’ispirazione autobiografica.
Sono invece due prose di Giorgio Caproni, partigiano in Val Trebbia, ad aver suscitato I morti rimangono con la bocca aperta (2022) di Fabrizio Ferraro, ambientato nel 1944 sull’Appennino centrale e parte di un percorso in più capitoli sugli “indesiderati d’Europa”.
Nell’incipit, le parole del poeta invitano a una riflessione attualissima su come fronti opposti possano usare medesime parole-bandiera svuotandole: «Noi combattiamo per la liberazione, per la libertà, per la giustizia, anche; ma dobbiamo stare attenti di non combattere per le parole, nemmeno per queste parole. Le parole inventano un altro mondo – sono anzi un altro mondo distinto da quello dei fatti. Noi dobbiamo combattere per questo mondo, quello dei fatti».
La stilizzazione delle immagini di Ferraro, corpi in cammino su distese di neve, libera la Resistenza dalla fissità nel tempo per trasformarla in gesto vitale che contrasta nell’oggi la paura e la violenza; ovvero in quella resistenza con la “r” minuscola, che Fortini auspicava recensendo Dalla nube alla resistenza (1979) di Straub e Huillet, e che dovrebbe opporsi a ogni “democrazia autoritaria”.
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