giovedì 11 aprile 2024

CINEMA E GUERRA CIVILE NEGLI USA. RECENSIONE DI 'CIVIL WAR'. MARCHESI T. Civil War non è un monito, è il presente degli Stati Uniti, DOMANI, 10.04.2024

 Un presidente fascista al terzo mandato è in guerra con California e Texas: non è solo fantapolitica la distopica guerra civile americana messa in scena nel nuovo film di Alex Garland. È l’inquietante ritratto di un’America che si ostina pericolosamente a dividere il mondo in buoni e cattivi

Non è fantapolitica. Sul clima di guerra civile che si respira in America ha ansiosamente dissertato il New York Times, e un buon 40 per cento della popolazione, stando a un sondaggio del 2022 di YouGov e The Economist, ritiene che lo scontro frontale sia uno scenario in qualche modo probabile, likely, entro i prossimi dieci anni. Il venditore repubblicano di Bibbie e di sneakers dorate che si prepara a infestare di nuovo la Casa Bianca parla esplicitamente di giorno del giudizio (reckoning day) e di bagno di sangue (blood bath).


Kirsten Dunst in una scena di Civil War




Ecco spiegato il furioso dibattito al buio divampato sui social d’oltreoceano fin dal primo trailer di Civil War, il film di Alex Garland che è il più costoso investimento della rampante e indipendentissima A24 e che in Italia andrà in sala con 01 Distribution il 18 aprile, appena sei giorni dopo l’uscita negli Usa.

Si twitta a valanga da settimane per paura, sospetto e disagio: è political porn, è speculazione sulle presidenziali incombenti, per i cospirazionisti il mandante del film è il “traditore in capo” Joe Biden, è istigazione alla violenza di massa.

Candidamente, un oscuro cittadino confessa online: «È l’idea che non mi fa dormire la notte». Sottoscrivo: la deriva della radicalizzazione politica mi tormenta, e di certo non solo perché ho un figlio che vive da quelle parti. Non è solo l’attualità a fare di Civil War il film più importante di questo scorcio d’anno. Il lavoro di Garland mantiene più di quanto prometta.

Perché non è distopia, non è una variante senza gli zombie di quel ricco filone post-apocalittico su cui il regista e sceneggiatore si era già esercitato firmando lo script di 28 giorni dopo, il vecchio thriller di Danny Boyle. Non è nemmeno la satira di Joe Dante, pure così profetica nel mettere l’immigrazione e la chiusura dei confini, ben 27 anni fa, al centro di La seconda Guerra Civile Americana.

È troppo facile considerarlo un monito, uno di quei cautionary tales che in tempi di Guerra Fredda mettevano in guardia contro l’ecatombe nucleare. Sotto le mentite spoglie di un thriller d’azione Garland racconta invece la guerra civile in corso, qui e oggi. È questo doppio binario, tra linguaggio di genere e cronaca amplificata, a farne un evento.

Garland racconta un viaggio reale e simbolico quanto quello di Marlow sul fiume Congo: Cuore di tenebra e il suo derivato Apocalypse now sono sempre i riferimenti primari. A viaggiare da New York a Washington, 857 miglia per via delle deviazioni da emergenza, è la stampa, bellezza: un quartetto intergenerazionale formato dalla iconica Lee Smith (Kirsten Dunst), modellata sulla leggendaria fotografa della Seconda guerra mondiale Lee Miller, che fu la prima a entrare a Dachau, dal giornalista sodale di Reuters Joel (Wagner Moura), dal veterano del New York Times Sammy (Stephen McKinley Henderson) e dall’apprendista freelance Jessie (la Cailee Spaeny che qui riscatta la delirante Coppa Volpi a Venezia per il pessimo Priscilla).

Occorre che mi soffermi sul massacro dell’informazione libera negli Usa, sui licenziamenti di massa e la morte del giornalismo d’inchiesta? Non credo. Ecco quindi la prima emergenza segnalata dal film. Senza l’informazione, la Storia non avrà testimoni. Perché gli Stati non sono più Uniti: c’è un presidente al terzo mandato in guerra con le Western Forces ribelli di California e Texas, un “rosso” e un “blu” inopinatamente alleati.

È chiaro che Garland li ha abbinati per parlare, fuori dagli schieramenti ufficiali, a democratici e repubblicani senza paletti. Perché il presidente in carica, parole sue, è «un fascista che ha demolito la Costituzione». I giornalisti, «nemici pubblici» per la Casa Bianca, chiacchierando lo paragonano a Mussolini, Gheddafi e Ceaușescu.

Usa i droni per massacrare i civili e ha sciolto l’Fbi. Per inciso, è trumpiano (e cronaca vera) l’appello per togliere i fondi al Bureau. In apertura di film i newyorchesi si scontrano in piazza con le forze dell’ordine perché manca l’acqua. Ai blackout si supplisce coi generatori.

Il presidente blatera di trionfo imminente sui ribelli, della «più grande vittoria della storia del genere umano», ma sta per soccombere. Sul loro sgangherato automezzo i quattro della press vogliono raccogliere l’ultima, definitiva intervista. Emblematicamente, il 4 luglio.

GUERRA CIVILE QUI ED OGGI

La traversata è degna di The Last of Us, la serie: strade maestre bloccate da carcasse di auto, distributori di benzina con camere di tortura accluse e sadici in posa per la fotografa come ad Abu Ghraib, posti di blocco militari, esecuzioni sommarie e campi profughi negli stadi del baseball.

Lee Smith e soci catturano istantanee di morte random, nel confine dissolto tra patrioti e ribelli, come il Robert Capa consacrato dal suo miliziano spagnolo folgorato del 1936.

Quando però attraversano una cittadina della Virginia coi prati verdi annaffiati, i cani a passeggio e le boutique aperte, e sembra una grulleria di sceneggiatura in quel caos generale, Garland ti sta dicendo un’altra cosa: c’è un pezzo di America che oggi, non nella catastrofe futuribile, mette la testa sotto la sabbia e fa finta di niente.

C’è un pezzo sostanzioso di America che si ostina a ignorare che dividere il mondo in buoni e cattivi, trasformare la contrapposizione politica in mannaia morale, è fucking idiotic and incredibly dangerous, fottutamente stupido e incredibilmente pericoloso (cito il regista). «I segnali di frattura insanabile sono evidenti ma non sappiamo coglierli», dice Garland, peraltro britannico di nascita, «forse perché siamo ostaggi di posizioni incancrenite che ci impediscono di assorbire le informazioni?».

L’apoteosi è il cameo di Jesse Plemons, meraviglioso attore consorte di Kirsten Dunst e tra i protagonisti del prossimo film di Yorgos Lanthimos, che incarna il redneck trumpiano per antonomasia, quello da assalto a Capitol Hill. Tuta mimetica e fucile d’assalto, è l’emblema della guerra libera del presente, dotazione consueta da killer seriale in potenza.

È sua la battuta-chiave del film. «Siamo americani», gli dice precauzionalmente il giornalista di Reuters. «What kind of americans?», chiede lui, pronto a ingrossare una fossa comune che già rigurgita di cadaveri in odore di sangue misto e fazione sgradita. È la domanda in corso legale negli Usa, oggi, qui e ora.

NON È IL FUTURO, È IL PRESENTE

L’ultimo indizio che contraddice la narrativa sci-fi convenzionale sono le strade di una Washington sotto assedio, barricate, carri armati e missili a vista d’occhio. Tutte le luci dei palazzi sono accese, i lampioni stradali funzionano regolarmente.

Paradossale: è un autogol di regia? Nossignori, Alex Garland ci sta dicendo che questo è il conflitto ordinario dell’America oggi (era il titolo italiano di Short Cuts, geniale adattamento di Robert Altman da Raymond Carver, anno 1993), con la sua colonna sonora quotidiana fatta di ballad blues, del rap dei De La Soul, di Southern rock.

È il mondo normale, il banale presente in cui sopravviviamo. Di suo Garland ha solo convertito un sordo ronzìo in una sirena assordante. È quello che sta accadendo quando dividi il mondo in buoni e cattivi per investitura divina, oltre le ideologie.

Il cinema hollywoodiano lo fa da sempre per tutte le guerre altrove. La novità è massacrarsi tra americani nei panorami di casa. Se l’avversario dirimpettaio però diventa l’incarnazione del Male, giustifichi con te stesso – Bibbia alla mano – ogni misura per estirparlo. Trump sventola la sua Holy Bible su misura.

A24 (che è la casa madre di Everything Everywhere all at Once, Oscar 2023, e del superlativo, e sottovalutato, Dream Scenario) non ha proposto Civil War ai festival maggiori, Cannes e Venezia, che lo avrebbero accolto con tutti gli onori. Lo ha presentato al periferico statunitense South by Southwest Film & Tv Festival e lo fa uscire quasi alla chetichella. Le strategie indie sono imperscrutabili ma lungimiranti: si parla al pubblico, ai cittadini, non agli addetti ai lavori.


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