lunedì 22 luglio 2024

CINEMA E PSICOANALISI. SPIRITO C., Dai tabù di Bertolucci al trauma di Sorrentino: quando il cinema italiano diventa una seduta di psicoanalisi, LA REPUBBLICA, 22.07.2024

 


Paolo Sorrentino ha utilizzato i suoi film per rielaborare il lutto per la perdita dei genitori, Florestano Vancini ha raccontato in Un dramma borghese il complesso di Elettra, Nanni Moretti ha fatto di quello di Edipo uno dei temi più riconoscibili dei suoi lavori. Il tipo di fisicità delle donne volute da Federico Fellini nei suoi film cela il décolleté della ragazza che lo turbò da bambino, mentre la divinizzazione del denaro nel cinema di Vittorio De Sica parla dell’ossessione per il gioco d’azzardo del regista di Sora.

Da decenni gli autori del grande cinema italiano hanno affidato gli aspetti più reconditi della loro psiche ai propri lavori, trasmettendo angosce, desideri, traumi e voluttà al pubblico. Ora un libro, Storia freudiana del cinema italiano, scritto dal giornalista Alessandro Chetta ed edito da Edizioni Sabinae, spiega perché il cinema italiano è più ‘freudiano’ degli altri e come ha profondamente influenzato la vita psicologica di tutto il Paese. Già autore dei saggi Cancel Cinema – I film italiani nel mirino della censura e Splendori e miserie delle prostitute nel cinema italiano, Chetta esamina dettagliatamente la storia della settima arte, con un occhio di riguardo al Novecento, e il rapporto tra registi e spettatori che “quando si abbandonano alla sincerità si mettono a nudo, diventano voyeur delle debolezze gli uni degli altri”.


Nella testa dei registi

“La psicanalisi è come un obiettivo in più sulla mia macchina da presa”, diceva Bernardo Bertolucci che aveva dichiarato di sceneggiare gran parte dei propri film durante le sedute. Non tutti i cineasti sono stati consapevoli di aver riversato sul grande schermo immagini perdute, ricordi, traumi e relazioni irrisolte, però anche quando scrivono o filmano cose molto distanti dalla propria biografia parlano sempre di chiaroscuri personali. Lo psicanalista Cesare Musatti sostiene che pur non sapendo di psicoanalisi gli autori sfruttano ampiamente nelle loro opere la prerogativa di parlare all’inconscio.


Paolo Sorrentino ha utilizzato i suoi film per rielaborare il lutto per la perdita dei genitori, Florestano Vancini ha raccontato in Un dramma borghese il complesso di Elettra, Nanni Moretti ha fatto di quello di Edipo uno dei temi più riconoscibili dei suoi lavori. Il tipo di fisicità delle donne volute da Federico Fellini nei suoi film cela il décolleté della ragazza che lo turbò da bambino, mentre la divinizzazione del denaro nel cinema di Vittorio De Sica parla dell’ossessione per il gioco d’azzardo del regista di Sora.

Da decenni gli autori del grande cinema italiano hanno affidato gli aspetti più reconditi della loro psiche ai propri lavori, trasmettendo angosce, desideri, traumi e voluttà al pubblico. Ora un libro, Storia freudiana del cinema italiano, scritto dal giornalista Alessandro Chetta ed edito da Edizioni Sabinae, spiega perché il cinema italiano è più ‘freudiano’ degli altri e come ha profondamente influenzato la vita psicologica di tutto il Paese. Già autore dei saggi Cancel Cinema – I film italiani nel mirino della censura e Splendori e miserie delle prostitute nel cinema italiano, Chetta esamina dettagliatamente la storia della settima arte, con un occhio di riguardo al Novecento, e il rapporto tra registi e spettatori che “quando si abbandonano alla sincerità si mettono a nudo, diventano voyeur delle debolezze gli uni degli altri”.

Nella testa dei registi

“La psicanalisi è come un obiettivo in più sulla mia macchina da presa”, diceva Bernardo Bertolucci che aveva dichiarato di sceneggiare gran parte dei propri film durante le sedute. Non tutti i cineasti sono stati consapevoli di aver riversato sul grande schermo immagini perdute, ricordi, traumi e relazioni irrisolte, però anche quando scrivono o filmano cose molto distanti dalla propria biografia parlano sempre di chiaroscuri personali. Lo psicanalista Cesare Musatti sostiene che pur non sapendo di psicoanalisi gli autori sfruttano ampiamente nelle loro opere la prerogativa di parlare all’inconscio.

(Tra gli esempi analizzati da Alessandro Chetta ci sono le “sopravvalutazioni” che Federico Fellini faceva “delle forme sinuose delle donne” oppure il “cordone” che legava Nanni Moretti a sua madre, Agata Apicella, e che ha riversato nel personaggio di Michele, ‘mammista conflittuale’ dei suoi primi quattro film che dice esplicitamente: “Io non lo voglio superare il complesso di Edipo!”. O ancora Luchino Visconti che, secondo la fida sceneggiatrice Suso Cecchi d’Amico, scoprì se stesso mentre realizzava Il Gattopardo“le lacrime del principe di Salina nella villa del gran ballo sono le sue”, si legge in Storia freudiana del cinema italiano, e “la nostalgia del tempo perduto inizierà in Sicilia a ossessionare Visconti”. “Il regista s’identifica in don Fabrizio – conferma anche Francesco Piccolo – si allontana dalla dimensione politica e il film diventa il racconto della fine del suo mondo”.

Il rapporto con il padre


Tra le figure più analizzate nel saggio c’è il padre. Il cinema, che per buona parte del XX secolo è stato scritto e girato da uomini, ha affrontato spesso il rapporto tra padre e figlio maschio. In questo caso il padre è visto come garante del potere, modello inattaccabile e inarrivabile o ancora simbolo della diversità di culture e approcci alla vita, data dal gap generazionale. Padre padrone dei fratelli Taviani è il lungometraggio che per antonomasia enuncia la verticalità padre-figlio, ma sono moltissimi i film citati, da Incompreso di Luigi Comencini in cui un ragazzo orfano di madre idealizza il padre fino a vergognarsi dell’incapacità di risultarne all’altezza a Padri e figli di Mario Monicelli, in cui i genitori del dopoguerra non sanno come interagire con figli che sono stati mandati all’università anziché al fronte e vivono una giovinezza ben distante da quella sperimentata dalla generazione precedente.

Persino Ultimo tango a Parigi di Bertolucci descriverebbe un patto generazionale tra vecchio e nuovo dal momento che le fasi dell’amore tra l’uomo maturo, Paul (Marlon Brando), e la ragazza, Jeanne (Maria Schneider), celerebbe “l’eterna lotta tra il padre che detta una legge prima liberatoria e poi costrittiva e il figlio o la figlia che pur soggetti al genitore hanno necessità di elaborare una propria norma interiore”.

Scardinare tabù


Il cinema, in questa lettura freudiana, è anche un mezzo per superare i tabù. Un caso su tutti è quello dell’omosessualità e qui Alessandro Chetta cita Ferzan Ozpetek come autore che più di chiunque altro in Italia ha sdoganato l’omosessualità per un pubblico più ampio, dal suo primo film Il bagno turco – Hammam in poi. "Se la libido – si legge nel libro – condiziona il nostro vissuto spingendo all’autocensura dei comportamenti, il cinema mitiga quei divieti donando piacere anche se effimero”.

Raccontare perversioni


Storia freudiana del cinema italiano descrive e spiega anche lavori freudiani in cui i registi portano per mano gli spettatori in territori mai frequentati in modo cosciente. È il caso di Per amare Ofelia di Flavio Mogherini, film incentrato sul complesso di Epido che segna l’esordio al cinema per Renato Pozzetto, o titoli con un filone filo-incestuoso come La nipote di Nello Rossatti, in cui Adele (Francesca Muzio) seduce il cugino e lo zio, o il più recente È stata la mano di Dio in cui Paolo Sorrentino “ha dichiarato sfacciatamente” un’attrazione erotica per la ‘zia’ (interpretata da Luisa Ranieri).

Il cinema come il sogno


"Se il sogno – si chiede Chetta – accompagna la vita psichica degli individui, allora il mezzo cinematografico, ch’è sogno a occhi aperti, ha svolto in parte la stessa funzione collettivamente e, di più, influenzato in concreto il divenire sociale?”. Il cinema nel corso dei decenni ha favorito un’esplorazione emozionale che non ha pari nelle altre arti e Storia freudiana del cinema italiano accompagna il lettore non solo alla decodifica in chiave psicoanalitica dei film italiani ma spiega anche che alcune storie, anche per il modo in cui sono girate, accompagnano il pubblico dove non vorrebbe, lasciando gli spettatori con un senso di vertigine. E queste sono le visioni che hanno un impatto sull’individuo, che portano a interrogarsi e potenzialmente a capire qualcosa di nuovo sul proprio io.







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