David Lynch è morto e io non ancora. Allora posso dire brevemente che il cinema di Lynch per me è sempre stato la gioia dell’inquietudine. Premetto che non mi è mai fregato nulla di chi avesse ucciso Laura Palmer, a me interessava il suo stile inconfondibile, quel non sapere mai dove ti avrebbero portato le sue immagini ipnotiche, non era lo spettatore a guardare i suoi film, era il contrario: erano i suoi films (mettiamo il plurale) che ti fissavano, ti scrutavano in cerca dell’ignoto che alberga in ognuno di noi.
Come in Strade perdute era Lynch che entrava nella casa del nostro essere, ci filmava, ci osservava, creando ulteriori spazi nella nostra interiorità, facendoci visitare salotti o ripostigli che non pensavamo di avere. Non era iperrealismo ma ipersurrealismo. Il surrealismo non è qualcosa di opposto alla realtà, è invece la realtà aumentata o diminuita, la realtà tolta come un tappeto che
ci levano da sotto i piedi o la realtà come una fabbrica di matite psichiche che si spezzano nella nostra cognizione del delirio, non cognizione del dolore come in Gadda, ma appunto cognizione del delirio. Al funerale di Ernst Lubitsch, Billy Wilder conversando con un amico disse, cito a memoria: “Non è tanto la tristezza di un mondo senza Ernst Lubitsch, ma la tragedia di un mondo senza più nuovi film di Lubitsch”. La stessa identica cosa si può dire di Lynch, anche se il suo ultimo film, Inland Empire, risale al lontano 2006.
Eppure c’era sempre la speranza nel cinefilo devoto di una sua nuova visione da donare al pubblico. Le sue immagini avevano sempre uno scarto indecifrabile, erano enigmatiche, ogni suo film accarezzava il mostro interiore, il nostro mostro interiore, ed erano una sfida all’oblio, al potere immenso e divoratore del Nulla, non c’era mai una resa incondizionata alla “mente che cancella”. Come ogni grande artista Lynch veleggiava sul sacro confine della percezione umana, rendendoci mistero a noi stessi, e non c’era sadismo in questo ma solo una clamorosa forma d’amore per noi, per la nostra intelligenza (in)umana, oltreumana, una scatola nera da farci trovare sotto il cuscino, miscelando indissolubilmente
il sogno al fiato della realtà, confondendo le acque dell’Essere.
Eppure, nonostante la carica eversiva e visionaria del suo occhio, ma anche del suo orecchio, forse i suoi film che amo di più sono Elephant man e Una storia vera. In Elephant man Merrick muore scegliendo di dormire supino, come tutte le persone “normali”, con la sua enorme testa in quella posizione è destinato a soffocare. La normalità ci soffoca e la parola mostro è solo un invito costante alla meraviglia, allo stupore. Lynch ci faceva camminare nella sua valle oscura, solo per spingerci a ritrovare la grazia dello spaesamento, infondendoci il coraggio di non farci ingabbiare da stilemi comportamentali mortificanti. E in Una storia vera Lynch ci fa viaggiare sopra un piccolo trattore rasaerba, 400 chilometri percorsi sotto i cieli stellati d’America, il viaggio di un fratello verso un altro fratello, per poi guardarsi negli occhi con commozione, dirsi pochissime parole, ma viversi nell’incanto della nostra presenza davanti all’inesplicabile e arcano mistero del cosmo.
Forse “il mondo è diventato una stanza rumorosa” come diceva Lynch, ed è solo nel silenzio che ritroviamo i processi creativi, ma un silenzio carico di vertigine e rivolta contro tutto ciò che vuole umiliarci e deprivarci della nostra immensa natura proliferante, perché in fondo Lynch con i suoi films ha voluto dirci questo: che l’essere umano è un miracolo. Un miracolo insondabile. Lottiamo contro il rumore del mondo, ritroviamo la pienezza oscura dell’immagine, apriamo gli occhi, lo spettacolo deve continuare, ma ricordiamoci che il suo sipario è vivo solo quando è strappato. Strappiamoci di dosso tutta la banalità che vogliono propinarci: lo dobbiamo a David Lynch e alla parte più vera di noi stessi.
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