Davvero singolare nella sua ambientazione di fine anni Ottanta nelle campagne sud-coreane lontane dalla capitale Seul. Un omicida seriale uccide giovani donne con qualcosa di rosso addosso, nelle notti di pioggia e in concomitanza con una canzone, sempre la stessa, trasmessa, in quelle notti, da un'emittente locale. Ai due poliziotti locali dai metodi sbrigativi e violenti si affianca un detective spedito dalla capitale. Sulle prime sembrerebbe un poliziotto capace di usare altre strategie investigative, ma alla fine anch'egli cede al paradigma lombrosiano-frenologico in base al quale il colpevole deve presentare tratti del volto particolari. Ma il colpevole non si troverà. Anni dopo (dal 1986 si passa al 2003) uno dei due poliziotti locali, che ha cambiato, nel frattempo, lavoro in una Corea modernizzatasi, si ritrova a passare nelle campagne dove aveva visto, 17 anni prima, il primo cadavere della serie nascosto in un canale.
Si ferma e torna a guardare sotto le lastre di cemento. Una ragazzina che sta transitando a piedi lo vede, si ferma e gli chiede cosa stia facendo. L'uomo, un po' imbarazzato, cerca a fatica una spiegazione plausibile. Strano, risponde la ragazzina; giorni fa un altro uomo si era fermato nello stesso posto dicendo che, tanti anni fa, aveva fatto delle cose in quel luogo. L'ex-poliziotto, non dimentico di quella storia, le chiede se lo abbia visto in faccia: "Che faccia aveva?" "Mah, una faccia normale...una faccia come quella di tanti".
Ecco il punto: una faccia normale; dunque, né bella né brutta come le facce dei due presunti colpevoli, due estremi fisiognomici su cui si erano esercitate, senza fortuna, le pressioni e le violenze degli investigatori. Il male non ha contrassegni particolari e non si fonda su pregiudizi; non è un'eccezione alla norma, ma si confonde con la norma stessa. Banalità del male?
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