Riferendosi a Don DeLillo, Fredric Jameson sostiene che si tratti di uno “scrittore epistemologico” nel senso che ha offerto una “soluzione formale” alla «tensione ineliminabile tra l’esperienza privata, frammentaria e la spiegazione scientifica del mondo». Se la spiegazione scientifica del mondo sarebbe quella che riesce a cogliere il sistema di causalità del reale – per esempio, come funziona la totalità del sistema capitalistico in tutte le sue molteplici e stratificate connessioni o l’insieme aggregato al di là di una sua singola operazione o processo – l’esperienza privata e frammentaria, invece, si abbandona alla percezione e alla ripetizione di sequenze di percezioni immediate fino al punto in cui ciò che ci rimane è l’esaltazione della merce, oppure del luogo singolo isolato che allo stesso tempo è svuotato di significato, come un supermercato. Come se, scrive ancora Jameson, «predisponessimo la macchina da presa in modo da segnalare la sua stessa assenza».
Noah Baumbach, che ha presentato alla 79ima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia la trasposizione di White Noise — Rumore Bianco di DeLillo è sembrato volersi mantenere fedele a questo principio di affermazione dell’assenza, che per l’arte cinematografica è tanto più facile introdurre dal momento che il montaggio supplisce alla mancanza conclamata del plot di quel libro che ha inaugurato la postmodernità in letteratura. Nel libro e nel film del “romanzo” familiare viene esaminata, più che la formazione, la decostruzione e la caducità, in un mondo condannato alla riproduzione di superfici e di frammenti che presi nel rumore di fondo rendono la possibilità di un’esperienza o di una storia impossibile – tema questo molto caro allo stesso Baumbach che della famiglia e della coppia aveva già esplorato la crisi nel film Marriage Story del 2019.
L’impossibilità di raccontare la storia o anche solo “una” storia fa da corollario al problema della fine delle grandi narrazioni dove di epocale rimane solo la catastrofe che qui prende la forma di una nube tossica e cancerogena quando si espande su una qualsiasi tranquilla cittadina del Midwest, travolgendo il ritmo già insensato della vita familiare dei Gladney. Lui professore di studi nazisti, lei maestra d’aerobica, gestiscono insieme quattro figli cercando di fare fronte con il loro amore e un’unità familiare molto arrangiata all’unico evento che scalfisce davvero la riproduzione ossessiva dei simulacri – la morte. Ma nel capitalismo avanzato, di questo squarcio esistenziale inevitabile, i soggetti e le relazioni contemporanee non riescono fino in fondo a farsi carico, tanto che la risposta diventa nevrotica, iper-medicalizzata, drogata, una fake news su tutti livelli – in cui lei mente ai figli e a lui, che sua volta mente a sé stesso e a tutti colleghi, dato che insegna studi nazisti ma non parla neppure il tedesco, e in cui il momento di possibile rivelazione finisce solo per risultare in una serie di déjà-vu. Come se non si potesse uscire dalla circolazione delle merci e neppure dall’affollamento delle immagini.
Baumbach tenta, molto esplicitamente, un film politico tornando su un libro del 1985 che, profeticamente, coglieva la novità del corso Reaganiano. Se il libro di DeLillo anticipava tutta la distopia del mondo contemporaneo, il film sembra quasi fare i conti con un’apocalisse già avvenuta, che deve confrontarsi il fatto che il «mondo si è chiuso» – secondo le parole dello stesso regista – e l’insensatezza è divenuta la sua forma dominante. Questa crisi epistemica – come l’ha definita sulla soglia delle elezioni statunitensi del 2020 Luca Celada in Autunno americano – è tanto strutturale e diffusa da diventare desiderio ossessivo di ricostruire il plot nel complotto e di compensare la solitudine di fronte alla morte dell’iperindividualizzazione con il ritorno del fascismo – che viene persino insegnato nelle università.
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