Il 6 giugno 1935 esce nelle sale inglesi “Il club dei 39/The 39 Steps” di Alfred Hitchcock, tratto liberamente dal romanzo di John Buchan del 1915 “I trentanove scalini” e sceneggiato da Charles Bennett e Alma Reville. È uno dei film più emblematici della fase britannica del Maestro; e tra quelli più ricchi di temi e stilemi che segneranno gran parte delle sue opere a venire. Ne è protagonista Richard Hannay (Robert Donat), canadese a Londra, che dopo aver assistito a uno spettacolo del mentalista Mister Memory (Wylie Watson) si ritrova coinvolto in un complotto internazionale quando la misteriosa Annabella Smith (Lucie Mannheim), che gli aveva chiesto aiuto, viene pugnalata subito dopo avergli rivelato l’esistenza di una rete di spie -intenzionata a trafugare un segreto militare- il cui capo è riconoscibile dall’assenza di una falange del mignolo destro. Accusato dell’omicidio, Richard fugge in treno e, braccato, bacia una passeggera, Pamela (Madeleine Carroll), per sfuggire alla polizia. Non sarà che l’inizio di una serie di complicati eventi che vedrà le vite dei due intrecciarsi inesorabilmente prima di confrontarsi un’ultima volta al cospetto di Mister Memory con il professor Jordan (Godfrey Tearle), deus ex machina dell’organizzazione.
Il film si apre con una sequenza ambientata al Music Hall, luogo d’illusioni e giochi di prestigio (una dichiarazione in linea con la poetica di Hitchcock, costruttrice di mondi ambigui e apparenze ingannevoli) e prosegue con una fuga frenetica che è tanto fisica quanto simbolica: Hannay attraversa paesaggi scozzesi brulli e ostili, si rifugia presso contadini sospettosi o aristocratici ambigui, affronta il sospetto della polizia e la diffidenza di Pamela, che gli si ritrova giocoforza legata a doppio filo. In un thriller “raccontato col ritmo della commedia” (P. Mereghetti), Hitchcock gioca sia su un suo tema cardine, quello della “falsa colpa”, sia sulla figura dell’uomo in fuga: anticipando così il suo stesso “Intrigo internazionale/North by Northwest”(1959) e costruendo un prototipo poi ossequiato da tanti thriller “moderni” di enorme successo (come per esempio “Il fuggitivo/The Fugitive”, 1993, di Andrew Davis).
Il montaggio serrato, la regia mobilissima e l’uso simbolico degli oggetti (come le manette che da un certo punto legano Hannay e Pamela) rivelano l’eleganza di un linguaggio già maturo e saturo di personalità (anche nei passaggi più “delicati”: come la scena nella locanda dove Hannay e Pamela, costretti a fingersi sposi, rivelano a poco a poco un’intimità costruita sull’equivoco).
Hitchcock gioca costantemente sul confine tra realtà e rappresentazione, come dimostra il finale a teatro dove, ancora una volta, l’illusione si confonde con la realtà (come avverrà più compiutamente in tanti altri suoi film successivi, con l’apoteosi teorica di “La donna che visse due volte/Vertigo”, 1958). E la verità si svela sul palcoscenico, nel luogo della finzione per eccellenza, suggerendo che ogni certezza è costruita e “performata”. Lo smascheramento dell’organizzazione spionistica dei “39 scalini” non risolve il senso di inquietudine che pervade il film: al contrario, conferma che la realtà è un artificio precario, sempre esposto al rischio dell’inganno.
Sotto la superficie del thriller d’azione si nasconde infatti anche un sottotesto filosofico sul tema dell’identità come ente fragile e “negoziabile”: Hannay (cognome che non casualmente suona quasi come “any”, ossia chiunque), per salvarsi, deve assumere più volte un’identità fittizia; e solo nel momento in cui riconosce la verità può finalmente ritrovare sé stesso.
In ossequio alla chiarissima posizione politica del regista sui totalitarismi, “Il club dei 39” è inoltre una riflessione sul linguaggio, sull’identità e sull’invisibilità del potere: e fu interpretato (giustamente) anche come una metafora della lotta contro le infiltrazioni e le minacce interne ai sistemi democratici. La rappresentazione di un'organizzazione segreta che cerca di sovvertire l'ordine attraverso l'inganno e la manipolazione rifletteva le paure dell'epoca riguardo all'espansione del fascismo e del nazismo: tanto che, durante il regime, in Italia il film venne distribuito con modifiche sostanziali (l’ambientazione originaria in Scozia fu prudentemente spostata “negli Stati Uniti, al confine con il Canada”: una variazione che generò un effetto di disorientamento surreale nello spettatore dell’epoca) e solo alla metà degli anni Settanta fu approntata una nuova edizione (oggi facilmente recuperabile in streaming, a dimostrazione della popolarità sempiterna dell’opera hitchcockiana) emendata per la messa in onda televisiva.
Nessun commento:
Posta un commento