L’istantanea di una famiglia borghese europea». Le parole che Haneke utilizza per riassumere il suo nuovo film ne restituiscono in pieno il senso. Happy End – Lieto fine con molte sfumature nell’universo del regista austriaco – ritrova il protagonista del Palma d’oro Amour (2012), Jean-Louis Trintignant e l’icona Isabelle Huppert anche se più che una conferma le loro presenze sembrano alludere a una relazione ininterrotta con i precedenti film, qualcosa di più della cifra d’autore, quasi un sequel – «Mia moglie era malata e l’ho soffocata» racconta alla giovane nipote il personaggio di Trintignant in Happy Endarrivando da Amour con la sua vecchiaia infelice.
È una strana geometria questa di Happy End, dall’apparenza impeccabile, in realtà piena di slittamenti e di insidie, il cui teorema è chiaro – forse fin troppo – nel confronto diretto con l’attualità.
Tutto si dipana dal nucleo di una famiglia borghese francese, i Laurent, imprenditori che fanno fatica a sostenere la crisi economica: due fratelli, Anne (Huppert) e Thomas (Mathieu Kassovitz), e il vecchio padre (Trintignant), più figli, mogli, nipoti, servitù (maghrebina) tutti nella grande magione di famiglia appena fuori Calais, ma le cronache che parlano dei migranti sono un’eco lontana e la loro presenza ai loro occhi è invisibile. Sono altre le cose che interessano i Laurent, e che anche li soffocano nel groviglio di relazioni «familiari» che il rito quotidiano fa fatica a assorbire.
Tutto si dipana dal nucleo di una famiglia borghese francese, i Laurent, imprenditori che fanno fatica a sostenere la crisi economica: due fratelli, Anne (Huppert) e Thomas (Mathieu Kassovitz), e il vecchio padre (Trintignant), più figli, mogli, nipoti, servitù (maghrebina) tutti nella grande magione di famiglia appena fuori Calais, ma le cronache che parlano dei migranti sono un’eco lontana e la loro presenza ai loro occhi è invisibile. Sono altre le cose che interessano i Laurent, e che anche li soffocano nel groviglio di relazioni «familiari» che il rito quotidiano fa fatica a assorbire.
Poi un giorno arriva la figlia tredicenne di Thomas, Eve, la mamma ha inghiottito troppe pasticche e lei è rimasta sola. Spaventata, in lacrime, innocente (ma Il nastro bianco – per rimanere sempre nelle immagini hanekiane ci ha insegnato a dubitare dell’innocenza come dogma dei bambini) un po’ un’intrusa, figlia della prima moglie di Thomas che lui ha abbandonato senza occuparsene, un po’ obbligo parentale. Disturbante? Forse. Ma anche piena di segreti che solo l’anziano progenitore tutto preso dal proprio progetto di suicidio riesce a intuire.
In questa cartografia del proprio cinema Haneke gioca sulla presunta opposizione tra esterno – il mondo – e interno, la famiglia, in quella che sembra una relazione impossibile, vista la barriera, estremamente duttile, che in questo nucleo familiare assorbe tutto ciò che disturba il proprio orizzonte mentale, il solo elemento fuori controllo appare, appunto, la ragazzina. Che più del figlio ribelle di Huppert, portato al gesto eclatante, alla provocazione da «scandalo» come portare i migranti al pranzo di gala, è sintonizzata col tempo in cui viviamo: il suo punto di osservazione sul mondo è lo schermo del suo smartphone da cui riprende, controlla, prova a manipolare, mette in atto la sua solitaria ribellione.
Sa tutto la ragazzina, è consapevole del proprio disgusto, di un odio che prova per quella famiglia di cui mette a fuoco nelle sue immagini digitali gli orrori, è «uccidi il padre e la madre» con una rabbia lontana e insieme confusa, esplosiva miscela di disgusto e noia.
E in quel piccolo mondo congelato immette un disordine sotterraneo, costringendo ogni singola figura, che è anche una trama a sé stante, a movimenti imprevisti. È tra questi , con punte a volte sublimi, che Haneke conduce il film, dei suoi forse quello meno geometrico che nelle intuzioni inattese raggiunge i suoi esiti migliori
E in quel piccolo mondo congelato immette un disordine sotterraneo, costringendo ogni singola figura, che è anche una trama a sé stante, a movimenti imprevisti. È tra questi , con punte a volte sublimi, che Haneke conduce il film, dei suoi forse quello meno geometrico che nelle intuzioni inattese raggiunge i suoi esiti migliori
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