sabato 30 dicembre 2017

CINEMA E IL MALESSERE DELLE SOCIETA' GLOBALIZZATE. LOVELESS E THE SQUARE. M. BELPOLITI, The Square & Loveless: arte amore e bambini, DOPPIOZERO, 22 dicembre 2017

I due film più belli oggi nelle sale parlano della medesima cosa. The Square dello svedese Ruben Östlund e Loveless del russo Andrey Zvyagintsev. Non proprio la stessa cosa, ma qualcosa di simile. The Square ha come protagonista Christian, direttore del museo svedese d’arte contemporanea. 


dal sito DOPPIOZERO

 
La maggior parte dei critici che ne hanno scritto, e anche molti spettatori, l’hanno interpretato come un film proprio sulle pretese di “artisticità” dell’arte contemporanea. La scena che tutti ricordano è quella in cui un addetto alle pulizie del museo disfa senza volere i mucchi di ghiaia che compongono una delle installazioni, opera di un artista contemporaneo: “You Have Nothing”; Christian e l’assistente devono ricomporla. Certamente l’ironia di Östlund si trasferisce dal protagonista – narcisista, egocentrico, superficiale – all’arte contemporanea. 
  
In una delle scene importanti del film – ce n’è più di una in una narrazione che è tematica oltre che cronologica – durante la cena di gala dei contributori e sostenitori del museo uno degli artisti del museo, presente con un’opera, s’esibisce in un’imitazione delle scimmie (l’attore che lo impersona è un istruttore per gli uomini che recitano travestiti da scimmie). Sale sui tavoli, insidia le persone. Nello spazio di qualche minuto si passa dalla performance alla “realtà”. Intollerabile spostamento che mette in imbarazzo gli astanti e si trasforma in una vera e propria violenza dell’artista verso una donna, e di riflesso dei commensali verso di lui: il pestaggio finale del performer. La violenza rimossa rientra dalla finestra, il tutto girato con una freddezza alla Bergman che lascia basiti. 
   
L’opera-piazza che dà il titolo al film, The Square, la vediamo invece nelle prime scene. Si tratta di un quadrato segnato nel porfido della piazza mediante una profonda incisione. Si trova all’esterno del museo, e vorrebbe rappresentare un luogo di sospensione della violenza quotidiana che attraversa ogni città, quindi anche Stoccolma. Si tratta, come spiega il direttore Christian, di “un santuario di fiducia e altruismo”. Nella conferenza stampa che inaugura l’installazione è detto che “al suo interno tutti condivideranno uguali diritti e doveri”. Per pubblicizzare questa opera vengono ingaggiati due giovani pubblicitari che pensano bene di realizzare un film in cui una bambina mendicante viene fatta esplodere dentro The Square, il quadrato magico dell’artista. L’effetto è quello di creare subito uno scandalo e Christian si deve dimettere da direttore del museo. In verità, la scelta di mandare in onda il video scandaloso non è stata da lui condivisa: distratto da un’altra vicenda non si è reso conto della provocazione del filmato dei due giovani pubblicitari rampanti. Cosa l’occupava? Qui sta il centro del film dal punto di vista narrativo. Christian ha subito un furto; per rubargli portafoglio e cellulare i ladri hanno finto una scena: una passante che chiede aiuto. Christian glielo offre. Il tutto si svolge in una piazza, più ampia di quella del quadrato dell’opera. Il direttore del museo ha vissuto il tutto come se fosse la scena di un film. In effetti il furto è la recita “vera”. 
  
Christian è un uomo superficiale e vanesio; viene colpito dal furto, che lo priva di una parte della sua identità, il portafoglio e soprattutto il cellulare. Si preoccupa di recuperarlo. Grazie a un’applicazione riesce a vedere sul suo computer dove si trova in quel momento il telefono: in un palazzone di un quartiere periferico. Un suo collaboratore, un ragazzo di colore, lo convince a recuperarlo usando dei volantini distribuiti nel palazzo dove si troverebbe il cellulare. L’app infatti gli dà la posizione, ma solo con un certo grado di approssimazione. Non identifica l’appartamento. Con il ragazzo di colore Christian scrive su diversi fogli: “so che sei tu ad avermi rubato il cellulare e il portafoglio, ridammeli”. Va negli appartamenti e mette nelle cassette delle lettere la missiva. Si tratta di un gioco, una sorta di performance. Invece è una cosa seria, come si capirà dopo. Produrrà la restituzione del portafoglio, e insieme si palesa un bambino. Non è lui il ladro, ma è stato accusato di esserlo dalla lettera. Ora i suoi genitori pensano che lo sia e lui vuole che gli sia restituito l’onore. Per ottenerlo comincia a perseguitare Christian, va sotto casa sua, dentro le scale, gli scrive un biglietto. Nel racconto sono comparse anche le figlie di lui, e si è capito che è stato spostato; è separato e ha due figlie, un padre distratto, un narcisista dei nostri giorni. Particolare non secondario: sullo sfondo di ogni scena del film ci sono barboni, accattoni, persone senza fissa dimora. Appaiono sempre, in quasi tutti gli esterni. Sono gli esclusi, così come in una certa misura il bambino che chiede verità è un altro escluso. Sarà lui a far saltare l’ipocrisia di Christian. Dov’è la fiducia e dove l’altruismo? Non c’è ovviamente. 

Il film non ha una trama ordinata, mescola le cose, racconta più cose contemporaneamente, perché vuole farci vedere la vita così come scorre, con il suo caos, che difficilmente riusciamo a mettere in ordine. I pensieri del protagonista – i nostri pensieri – non seguono mai la sequenza cronologica degli eventi, la loro successione: siamo tematici nei pensieri e questa medesima tematicità fa da filo conduttore del film, seppure abbia una sua cronologia, un preciso ordine degli avvenimenti, con un prima e un dopo. Christian è una persona confusa, che agisce ben distante dall’empatia che vorrebbe suggerire con la commissione del quadrato: “santuario di fiducia e altruismo”. 
  

Un’altra vicenda narrata nel flusso del racconto è quella di Anne, una giornalista americana che intervista il direttore nelle prime scene e con cui Christian va a letto successivamente, dopo una festa del museo – il sesso come momento rivelatore? Anne l’ha messo alla berlina nella intervista leggendogli un testo senza troppo senso inserito nella Home page del museo, di sicuro scritto da lui. Christian è bello, piace. Ad Anne lui piace molto, come si capisce in seguito. Il regista sfodera qui la sua ironia del “politicamente corretto”. Dopo aver fatto l’amore usando il profilattico, Anne glielo chiede per buttarlo via. Christian non lo vuole consegnare. Cosa potrà mai fare lei dello sperma di lui? Il pattume come destino dell’amore? 
   
Il pattume torna in un altro momento topico del film. Christian ha gettato nel cestino dei rifiuti il foglio con cui il bambino gli chiedeva giustizia rispetto all’accusa. Per ritrovare quel foglietto apre i sacchetti dell’immondizia del suo palazzo dentro il gabbiotto del pattume. Scena inquadrata dall’alto. Sotto una pioggia battente Christian disperde i rifiuti nell’intera area. Scena apocalittica: arte e rifiuti, vita e rifiuti. Questo è il caos, base della vita stessa. 


Qual è dunque l’argomento del film? La superficialità sentimentale ed emotiva, l’assenza di empatia, l’ipocrisia, la violenza rimossa, il sesso come strumento di godimento e non di piacere, il narcisismo individuale e quello collettivo. E poi l’insofferenza verso gli altri e l’incapacità ad avere un rapporto vero con la realtà. Tutto è alterato da “qualcosa”. Cosa? Mancanza d’amore. Nessuno ama nessuno. Forse solo Anne ama Christian. Ma non è detto che sia proprio amore. Mi piaci, gli dice. Per lui però è solo una scopata. Tutto ricomincia da capo, una giostra. La scena di sesso è girata in modo emblematico. Fa vedere Anne di schiena, mentre Christian è fuori campo sopra di lei, poi anche lui entra sotto l’occhio della camera da presa e si appoggia alla schiena di lei. La stessa posizione delle due scene di sesso del film di Zvyagintsev che si svolgono allo stesso modo, nella stessa postura. Tuttavia nel film russo il punto di vista è esterno, da lontano, con i due protagonisti entrambi visibili. L’amore che non c’è. 
  
Loveless è più diretto nel dirlo, più naturale, più sincero. La storia lo testimonia. Due genitori, Ženja e Boris, si stanno per separare. Hanno un bambino, Alëša, di dodici anni. Nessuno dei due lo vuole prendere con sé. Ciascuno di loro ha un altro amore, o presunto tale. Ženja sta con un ricco che vive un bell’appartamento tutto vetrate; va in ristoranti da ricchi: vino, vestiti, belle ragazze. Boris ha invece messo incinta una giovane ragazza, e ora stanno nella casa di lei quando non c’è la mamma: piccola borghesia impiegatizia. Lo sfondo del racconto sono i palazzoni di periferia. Una città vicino a Mosca. Alëša, il bambino, è solo, terribilmente solo. 
   
Il film si apre con la visita degli acquirenti dell’appartamento che la coppia ha messo in vendita e lui che piange: una lacrima che gli scende sul viso, la madre con voce alterata lo sgrida. È di troppo. Sta per perdere la casa: tutto. Gli edifici della periferia del film russo somigliano a quelli dove si reca Christian per postare nelle fessure della posta la sua lettera diretta al ladro. Abbandono, freddezza, dolore. In Loveless è una visione della Russia senza troppa speranza. Ma qualcosa c’è anche lì. Alëša, lasciato solo dai due genitori alle prese con il lavoro e con i nuovi partner, se ne va di casa. Scompare. 
    
Ecco apparire il poliziotto che conduce l’indagine. Dà un consiglio ai due: chiamate i volontari. Sono donne e uomini che si dedicano a questo tipo di ricerche. Hanno procedure e protocolli specifici. Sono una realtà no-profit. Come in Occidente, anche lì lo Stato non ce la fa più, non ha fondi, troppe e altre cose cui pensare. Non racconto cosa succede nel corso delle ricerche. Un dettaglio cinematografico importante però va detto. La macchina da presa inquadra i vetri. Si avvicina alle finestre, guarda fuori, mette a tema la trasparenza; glasnost era la parola della perestrojka, quando è morta l’URSS ed è rinata la Russia. I vetri sono un’intercapedine tra il dentro e il fuori. A volte ricoperti di gocce di pioggia – le lacrime della natura –, a volte opachi. Nella casa del nuovo compagno di Ženja ci sono grandi pareti vetrate, e specchi. Superfici riflettenti e superfici trasparenti. 
   
Fanno l’amore le due coppie in due contesti diversi. Zvjagintsev ha molto pudore nel ritrarle. Solo silhouette in controluce; fanno l’amore in modo naturale; glamour la donna e il ricco amico,più spontaneo Boris e la giovane ragazza. La vergogna entra nel film. Non detta, eppure c’è. 
   
Il bambino scomparso è l’unica nota di speranza. Qui l’altro punto di contatto del film: i bambini. Anche il bambino che ha tapinato Christian, che lo ha messo in crisi, è scomparso. La scena finale di The Square è la sua ricerca. Non lo trova. Alëša, al contrario, ha lasciato un segno di sé, un nastro, di quelli bianchi e rossi che delimitano i luoghi preclusi, un nastro di plastica, che all’inizio del film, nelle prime scene, egli lancia verso un albero e vi resta appeso. Oscilla al vento: una traccia, un resto, una stella filante. 
  
L’inizio del film ci ricorda che la Natura nel mondo russo è fondamentale, tanto quanto la città e gli spazi delle piazze in quello svedese. Un fiume d’inverno, gli alberi caduti, di traverso sull’acqua. Qualcosa d’incontaminato come Alëša, il dimenticato. Senza amore, resta solo la Natura, la sua bellezza, quale deposito di speranza. Qualcosa che non c’è nel raffinato regista svedese. Lì c’è la borghesia, quella vera, non quella stracciona della Russia di Putin.    
    Dappertutto l’amore sembra terminato, come un patrimonio consumato, svalutato, su cui non si può più contare. Non c’è nessun conforto nella fede, o in qualche prospettiva religiosa. Né a Stoccolma né a Mosca. Ci sono solo i volontari con la loro militanza del Bene, ma non basta. Loro cercano il corpo del ragazzino nella neve dei boschi, vicino al fiume, nelle zone irrigue. Invano. Tutto è perso. Un velo di tremenda tristezza cala poco a poco sui volti dei personaggi. Il fiume resta l’unica via di speranza. Basterà?   
    
Zvjagintsev è un moralista. Per fortuna. Non sarà Kieslowski, tuttavia la sua visione etica condotta con mano ferma ha molti meriti. Che cosa ci dicono dunque questi due bei film? Che il grande gelo è arrivato. Che però per vivere occorre almeno un po’ di empatia; è indispensabile perché ci sia ancora la società. Sarà sempre qualcosa di fragile, d’incerto. Però c’è, o ci sarà. L’aggressività, la violenza, ci tallona da vicino. L’animalità riaffiora sempre, e i borghesi della performance non sono meno animali dell’uomo-scimmia. Così in Russia l’umanità è un modo per resistere al gelo dell’inverno che avanza. 
  
Le due opere cinematografiche non ci forniscono una ricetta, neppure indicazioni minime. Registrano qualcosa che è nell’aria, che è ovunque intorno a noi. In Europa o alle sue frontiere. Nel film russo ci sono le immagini della guerra in Ucraina, immagini di disperazione, cui si contrappone l’indifferenza di Ženja, che corre sul tapis roulant atona e depressa nel balcone innevato della casa. L’unica speranza sono forse i bambini, la parte più pura e autentica della società degli uomini, l’unica davvero naturale. Tutto il resto è incuria, distrazione. Gli adulti sono ritratti con il loro cellulare sempre in mano, intenti a consumare qualcosa che non sanno neppure cosa sia: il tempo, l’amore, i sentimenti? Nessuno sa cosa ha perso. Nessuno lo ritroverà.

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