domenica 8 luglio 2018

MORAVIA AL CALEIDOSCOPIO. RECENSIONE A "MORAVIA OFF" di LUCA LANCISE. M. FAGOTTO, 8 luglio 2018


Nella parola "caleidoscopio" troviamo tre parole: "bello", "forma" e "sguardo". Abbiamo tutti guardato attraverso questo oggetto curioso il comporsi, sul suo fondo, di tutte quelle innumerevoli forme colorate che la rotazione del tubo originava. Un gioco di riflessi infinito capace di generare arabeschi, composizioni astratte, simmetrie colorate.

"Fino alla fine del mondo" (W. Wenders, 1991)


Sopra Bertolucci, sotto Maselli in "Moravia off"




E' la sensazione che si prova davanti al documentario "Moravia off" di Luca Lancise.
 Al centro sta esattamente il gioco, che potrebbe diventare infinito, dei tanti riflessi che si generano nel comporre motivi, temi, suggestioni, tutti suggeriti da un Moravia filmato, a sua volta, in tante maniere diverse (nonostante le tecnologie del tempo e l'invadenza televisiva non fossero così estese come oggi). E il riflesso è anche messo in scena, fissato dai tanti dispositivi usati per le riprese (forse un omaggio al film di Wenders "Fino alla fine del mondo" -1991- ). Due dei registi che hanno tradotto in film alcuni romanzi di Moravia, Maselli e Bertolucci, li vediamo mentre ri-guardano/ri-ascoltano in silenzio se stessi: il primo, alcune sequenze de "Gli indifferenti" (e sul display del lap-top dove noi vediamo Claudia Cardinale, affiora, di riflesso, il volto di Maselli); il secondo, alcune sue dichiarazioni di molti anni prima in un documentario proiettato sul muro del suo appartamento.
E chissà quali riflessioni, verrebbe da dire, vengono loro in mente, sul mondo, sul tempo e sulle loro opere, dopo così tanti anni!
Sarebbe interessante sapere anche quante delle combinazioni siano state l'effetto del caso e quante di una costruzione sapiente e consapevole, tramite il montaggio. Perchè una certa libera associazione probabilmente c'è stata (ed è stata evocata nel breve dibattito che ha fatto seguito alla proiezione), ma non di 'scrittura automatica' si può parlare anche se il flusso di riflessi che ci colpisce potrebbe indurre a farlo credere. In effetti, dall'inizio alla fine, ciò che prevale è il pieno controllo delle combinazioni possibili, una esigenza resa necessaria, immagino, dalla mole straordinaria, appunto, di suggestioni scatenate nel repertoriare, tagliare, ricucire l'universo audio-visivo in cui il documentario consiste.

Una curiosità: come si spiega che, fra gli scritti moraviani citati, non ci sia un romanzo del 1985, "L'uomo che guarda", il cui titolo rimanda proprio al nucleo tematico principale del documentario di Lancise? Una dimenticanza consapevole o inconsapevole? Visto il ciclo (Cinema e psicoanalisi) entro il quale il documentario è stato presentato, sarebbe interessante saperne di più.


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