mercoledì 23 ottobre 2019

CINEMA E CRITICA DELLA MODERNITA'. M. PEZZELLA, LE PAROLE E LE COSE, 17 febbraio 2016

Il rapporto tra cinema e filosofia è stato spesso frainteso e mal trattato: talvolta i film servono a puri pretesti di teorie sovraimposte (e avremo allora l’improbabile sfilata di film “aristotelici”, “heideggeriani” e quant’altro); oppure il critico presta fede agli enunciati ideologici delle sceneggiature, che non sempre – anche in casi illustri – rendono un buon servigio al regista apprendista filosofo (basti ricordare la recente e inverosimile involuzione di ex-grandi come T. Malick). 


Antonio Tricomi (Fotogrammi dal moderno, Torino, Rosenberg&Sellier 2015) sfugge a questi malintesi e colloca i film che sono oggetto del suo libro nella situazione storica determinata del Novecento, in cui vengono a nascere. I film hanno a che fare col pensiero, in quanto sono trasfigurazioni immaginarie, immagini di sogno, della modernità o – nei casi migliori – una riflessione conflittuale su di essa. Tricomi continua, con i suoi scritti sul cinema, il notevole lavoro che ha compiuto sui testi della letteratura italiana del secolo passato: se Benjamin diceva che il cinema era l’arte eponima del Novecento, per il nostro autore esso è un’occasione di critica della modernità, che è il filo conduttore, in ogni ambito, delle sue ricerche. Pasoliniano, inattuale, polemico, Tricomi considera il postmoderno come una bufala priva di sostanza: viviamo se mai in una estrema modernità estenuata e un po’ sanguinaria, senza neanche renderci conto della terra desolata in cui siamo. Non sempre il sarcasmo e l’autoironia, dei quali l’autore è capace, velano il suo rimpianto per un passato, nel quale l’intellettuale, pasolinianamente, poteva farsi coscienza critica di una società e come tale veniva rispettato: però egli è lucidamente convinto che simile ruolo sia irrecuperabile e così il suo sguardo si fissa su film in cui il Novecento appare disincantato e crudele, in una spirale oscillante tra una sovranità oscena e giullaresca e il rischio del silenzio della ragione.
La scelta dei film analizzati è retta da un nesso concettuale inconfondibile: tutti trattano delle forme novecentesche della sovranità, nella loro spettacolarità e nella loro tendenza al totalitarismo. Così Nastro bianco (2009) di M. Haneke indaga le premesse storiche e psicologiche del nazismo, la società in disfacimento, poco prima della guerra mondiale del 1914-1918, e la crisi irreversibile dei modi tradizionali di autorità. Moloch di A. Sokurov ci mostra direttamente la figura oscena e grottesca di Hitler: “…Sia la legge paterna nel Paese sia la parola del leader nella Città si rivelano meri idoli, ridotti alla loro pura essenza fantasmatica”(77)1, scrive Tricomi, commentando un passo di Kojève; l’autorità della legge paterna si riduce alla contraffazione spettacolare, in cui ogni singolo membro della massa si identifica con la figura e col nome del Capo, in un ritorno a relazioni arcaiche di fascinazione, che coesistono paradossalmente con la propagazione della tecnica più moderna. I film commentati dall’autore descrivono le forme di società spettacolare, che, secondo Debord, hanno sostituito quelle tradizionali di sovranità nel corso del Novecento: lo spettacolare concentrato e lo spettacolare diffuso, o anche la transizione tra l’ultimo modello sacrale di regalità (quello di Hirohito ne Il sole di Sokurov) e il moderno impero delle merci. Se Sokurov e Haneke mostrano i regimi totalitari del nazismo e dello stalinismo, Bellocchio – in Vincere – ci dà una rappresentazione della retorica cialtronesca e melodrammatica del fascismo, il quale per Tricomi non è una deviazione o un’aberrazione casuale della nostra storia nazionale, ma una sua possibilità di fondo in costante ripresa: “L’autoritratto abbozzato col fascismo dal Paese è il solo in cui quest’ultimo abbia storicamente sentito, e magari ancora senta, di potersi davvero riconoscere…la ricetta sociale elaborata col mussolinismo è l’unica che la nazione abbia tradizionalmente ritenuto, e forse tuttora ritenga, realmente capace di veicolare la propria fisionomia antropologica, civile, culturale e quindi una proposta ideologica alla quale costantemente ricorrere, pur sottoponendola ogni volta a revisione per adeguarla sempre nel miglior modo possibile alla specifica contingenza politica”(116). In altre parole, con Vincere, Bellocchio ci dà un altro esempio, dopo quello più attuale dell’Ora di religione, di quella caratteristica forma di governo analizzata da Gramsci – la rivoluzione passiva – che contraddistingue almeno a partire dell’Ottocento, quasi univocamente, la nostra storia nazionale.
Al noir e al suo significato nell’immaginario collettivo americano è dedicata la seconda parte del libro, e in particolare l’acutissima analisi del film di Hitchcock Vertigo. Strano genere il noir: Nei film più riusciti esso sembra quasi una messa in mora o una forma di ambiguazione degli stereotipi e delle tipologie del cinema classico americano: l’eroe –quando è un detective o un uomo di legge – diviene un essere in sospeso sulla frontiera del bene e del male, tutt’altro che un campione di incontaminata razionalità e umanità. Quando invece è un criminale, mostra una miseria umana e psicologica, che lo distingue nettamente dalle fosche e macbethiane figure dei gangster film degli anni Trenta; nella Fiamma del peccato di B. Wilder (1944), gli amanti assassini si incontrano per prendere i loro loschi accordi in un supermercato, quasi a sottolineare in tale cornice l’assoluta mancanza di grandezza e la pura e semplice avidità economica che li caratterizza: essi appaiono “come insignificanti lacerti di una folla anonima di decorative figure umane che tende a coincidere con l’intero consorzio civile e la cui identità, le cui attese, i cui comportamenti si rivelano determinati, in forma pressoché totalitaria, dalla massa sempre crescente di indistinguibili merci stipate in quello o negli altri supermercati e anzi ovunque, in una società che alla produzione e al consumo di esse inclina a ridursi”(158).
Tricomi ricorre, per descrivere l’universo del noir americano, agli scritti di Kracauer sul romanzo giallo e alla nozione di totalitarismo morbido, definita da G. Anders, completando così la sua personale trilogia critica sul potere politico nella modernità: che comprende, oltre al nazismo e al fascismo, anche la società delle merci diffuse. D’altra parte, non mancano le connessioni tra le diverse cinematografie della prima metà del Novecento: il nesso tra l’età inquieta del cinema tedesco degli anni Trenta, percorso da ombre prehitleriane, e il disorientamento del “sogno” americano è perlomeno mostrato dall’opera di F. Lang, approdato negli States dopo aver diretto più di un capolavoro dell’espressionismo (alcuni dei quali, assai ambivalenti, ammirati anche dall’establishment nazista, come I Nibelunghi del 1924). Nel Mistero del falco di J. Huston (1940), d’altronde, come non riconoscere nel gruppo di ambigui europei alla ricerca della falsa statuetta un qualche rapporto con le tenebre dell’irrazionale magico-arcaico, in contrasto col cinico e disincantato razionalista detective americano, interpretato da H. Bogart?
Tutti i temi del libro si riassumono nell’analisi di Vertigo di Hitchcock (1958), insieme all’Infernale Quinlan (1958) di O. Welles vertice e in certo senso conclusione del noir classico. In questi film è il detective stesso, smentendo il suo stereotipo di partenza, a essere invaso dalle tenebre dell’irrazionale e dalle vertigini dell’immaginario: Scottie, protagonista del film di Hitchcock “sembra quindi nutrire, persino suo malgrado, una prepotente vocazione distruttiva autodistruttiva…la sua insoddisfacibile volontà di potenza, rovesciatasi in frustrazione, cioè in acrofobia, dapprima vuole fargli uccidere chi potrebbe conseguire risultati per lui irraggiungibili (il collega, magari in grado di arrestare il criminale in fuga, o forse Dio stesso, vale a dire la creatura onnipotente per antonomasia), poi lo costringe ad assumere l’inconsapevole fisionomia di un assassino o di un suicida latente, ossia di un’ambigua divinità menomata, capace di affermare la propria supremazia solo rasoterra, quindi schiantando tutto e tutti, anche sé”(241). Nell’interpretazione di Vertigo, Tricomi riannoda i fili della sua concezione critica della modernità. Al centro della sua riflessione è soprattutto la mancanza di limite, l’impulso all’incremento smisurato della volontà di potenza, che dilaga dalla sfera economica a quella immaginaria del capitalismo e ne determina la sempre latente volontà totalitaria. In esso circola per l’appunto il dominio di un’ambigua divinità menomata che ne qualifica sia gli aspetti mitico-regressivi e arcaici, sia l’euforia sfrenata dell’espansione tecnica e della distruzione della natura. D’altra parte per Tricomi, come già detto, la nozione di postmoderno è priva di senso; non abbiamo affatto saltabeccato sulla fine della storia e dei suoi conflitti, siamo se mai immersi in una sua fase di terminalità prolungata, in quella durata nella catastrofe, che Benjamin per primo ha considerato come lo stigma emblematico della ipermodernità. In che modo si possa, se si possa, interrompere questa “società vampirizzata da fantasmi”(293) l’autore non prova nemmeno ad accennarlo e, adornianamente, lascia che sia il riconoscimento della negatività insopportabile a nutrire l’impulso alla ribellione.
D’altra parte, il cinema contemporaneo aiuta sempre meno a fornire valvole di speranza agli spettatori asfissiati dagli action movies della produzione spettacolare: basti vedere il radicale nichilismo dei film di B. Tarr o di R. Andersson. Per contro, il tipo di cinema prescelto e amato da Tricomi conserva la nostalgia o almeno un ricordo deformato dell’umano e una struttura narrativa complessa, del tutto anticonvenzionale, ma non interamente cancellata. L’autore crede ancora alla possibilità di un cinema in grado di comunicare sentimenti ed emozioni: benché difficili da sopportare. Il suo libro è un memoriale di ciò che non dovrebbe essere dimenticato nella storia del Novecento, perché i suoi traumi non abbiano a ripetersi indefinitamente in forma passiva: i film che ama analizzare sono spesso dolorosi e amari, ma conservano la fiducia nella capacità di costruire un ordine simbolico, che non soccomba ai deliri e alla hybris dell’immaginario del capitalismo.

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