Non è un caso che Joker sia ambientato nel 1981. Fu un anno infausto. Il neoeletto presidente Ronald Reagan – l’inquilino più conservatore della Casa Bianca di una generazione di presidenti – iniziava il suo primo mandato. I controllori di volo avevano iniziato uno sciopero sfortunato. E Martin Scorsese, reduce dal successo di critica di Toro Scatenato, aveva iniziato a girare uno dei più grandi flop della sua carriera: Re per una Notte. Questo film sarebbe uscito in sala due anni dopo, nel 1983.
Robert De Niro interpretava Rupert Pupkin, aspirante attore comico senza successo, ossessionato dal suo idolo, il popolare conduttore di un late night talk show Jerry Langford, interpretato da Jerry Lewis in una parodia di sé stesso. Determinato a conquistarsi un posto nello spettacolo di Langford, Pupkin lo insegue in un crescendo nevrotico che culmina col rapimento del conduttore e la richiesta di potersi esibire come riscatto. Pupkin ha successo, si esibisce davanti al pubblico di uno studio felicemente inconsapevole di applaudire uno psicopatico violento e squilibrato. Mentre Langford insiste sul fatto che ciò che fa è difficile, Pupkin rivela che può essere facilmente imitato, confezionato e venduto a un pubblico adorante che non conosce niente di meglio. Il pazzo può davvero essere il re.
Tuttavia, Re per una Notte fallì al botteghino, incassando solo 2,5 milioni di dollari a fronte di un budget di 19 milioni. Il pubblico venne scoraggiato dall’inquietante rappresentazione del’ammirazione per le celebrità e dal risentimento violento, ma i critici ne rimasero colpiti e il film è diventato oggetto di culto. Tanto che la sua storia – e forse parte della sua visione – si riflettono chiaramente nel Joker di Todd Phillips.
Scorsese è stato in realtà uno dei primi sostenitori del film, e Phillips e il co-sceneggiatore Scott Silver hanno attinto pesantemente al celebre milieu oscuro del regista, emerso in Toro Scatenato e Taxi Driver. Ma forse è proprio Re per una Notte il film al quale Joker deve di più.
I trailer raccontano una storia familiare: nella città di Gotham dei primi anni Ottanta, i lavoratori della nettezza urbana sono in sciopero, il crimine è in crescita e un ricco uomo d’affari (Thomas Wayne, il padre di Bruce) è in corsa per le elezioni comunali. Arthur Fleck, un comico sfortunato alle prese con una malattia mentale, viene lentamente spinto in una psicosi violenta (l’Arkham State Hospital non è più in grado di fornirgli cure a causa dei tagli di bilancio), e alla fine riesce a esibirsi al late nigh talk show condotto dal comico Murray Franklin, interpretato – ovviamente – da Robert De Niro. Di conseguenza, vediamo il Joker come prestanome di quello che sembra un movimento di massa, una rivolta populista che sembra molto più interessata alla violenza e alle espressioni culturali degli anti-élite che a obiettivi concreti.
Anche prima della sua uscita, Joker aveva suscitato controversie per come la sua narrazione corrispondesse a quella dei maschi bianchi autori di stragi. Nella sua recensione sul Time, Stephanie Zacharek ha scritto che «sappiamo come funziona questa patologia: in America, c’è un mass shooting o un tentativo di violenza da parte di un personaggio come Arthur praticamente ogni due settimane». E il Joker del grande schermo ha presumibilmente ispirato almeno un cecchino che ha ucciso dodici persone in un cinema di Aurora, in Colorado, nel quale nel 2012 veniva proiettato proprio Il Cavaliere Oscuro. Che considerino Joker come spericolato incel porno-assassino o lo ritengano lo specchio provocatorio della violenza nella nostra società, quasi tutti guardano il film attraverso l’obiettivo del presente.
Tutto ciò può avere un senso, ma manca il quadro più ampio. Non è un caso che Joker sia ambientato nei primi anni Ottanta, né che si avvicini così tanto a Re per una Notte. Nell’interpretare un artista il cui atto affabile maschera profondo risentimento e violenza, il film di Phillips ci ricorda che molto prima di Trump, è stato Ronald Reagan a usare la televisione per lanciare un movimento sociale reazionario di massa e con un successo terrificante.
Sebbene John F. Kennedy abbia usato la televisione con grande efficacia – in particolare in un dibattito del 1960 con un pallido e scarno Richard Nixon – è stato Reagan a cogliere veramente il potenziale del mezzo.
A differenza di Rupert Pupkin o Arthur Fleck, Reagan ebbe grande successo come attore, apparendo in dozzine di film dalla fine degli anni Trenta all’inizio degli anni Sessanta. Sebbene ciò includesse molte parti drammatiche all’inizio della sua carriera, sarebbero stati i ruoli più comici di Reagan negli anni Cinquanta a definire il suo personaggio pubblico, e infine politico: dal suo ruolo più famoso di professore che ha uno scimpanzé come allievo di Bedtime per Bonzo, nel 1951, alla sua carriera pluriennale come gioviale presentatore del General Electric Theatre. In effetti, è stato nei suoi tour propagandistici e pro-capitalisti di impianti di General Electric che Reagan ha imparato per la prima volta a dosare fascino e comicità per perseguire cause reazionarie.
Quando Reagan conquistò la Casa Bianca, sia i suoi sostenitori che molti detrattori gli riconobbero il talento di usare i toni comici a suo vantaggio. La sua battuta a Nancy Reagan nella stanza d’ospedale nel 1981, dopo essere stato quasi assassinato – «Tesoro, mi sono dimenticato di scansarmi» – lo ha fatto passare alla storia come il presidente dotato di senso dell’umorismo. Nel 1984, ragionando sulla padronanza del linguaggio televisivo di Reagan, Christopher J. Matthews osservò su New Republic: «Se i tempi sono difficili, sa essere allegro. Se i critici sono cattivi, sa essere gentile. Se i suoi programmi non incontrano il pubblico, può applicare la magia del narratore, l’incantesimo del fantasista».
Quest’ultima dimensione – quella dell’incantesimo che Reagan poteva scatenare con una performance accattivante – è quella che Re per una Notte ha catturato così bene, e che si riflette anche in Joker (in una scena del trailer, si alza un sipario e vediamo Arthur nei panni di Joker che assume una posa buffa mentre il pubblico si scatena).
Mentre Taxi Driver ha evocato la violenza nuda e furiosa degli Usa post-Vietnam, una società in preda alla stagflazione, Re per una Notte mette in scena il risultato di quel periodo: fascino e affabilità in superficie, a mascherare la rabbia reazionaria che trascina il paese sottostante. Mentre i bianchi benestanti potevano crogiolarsi con «è di nuovo mattina in America» [«It’s morning again in America» è il claim della campagna che Reagan condusse nelle televisioni private, NdT] la classe operaia multietnica subiva la sconfitta storica del sindacato e tagli massicci alla rete di sicurezza sociale. Mentre Reagan sorrideva in televisione, rubava i buoni pasto a un milione di persone e pianificava l’aumento di quasi 3 punti percentuali del tasso di povertà infantile.
È stata la combinazione di commedia, televisione e celebrità che ha permesso a questo messaggio populista di destra di affermarsi così facilmente. Come recitava la nota sentenza dell’economista socialista Robert Lekachman: «Ronald Reagan è il presidente più gentile che abbia mai distrutto un sindacato, ha cercato di ridurre le razioni del latte per il pranzo scolastico da sei a quattro once e ha costretto le famiglie bisognose di aiuto pubblico a smaltire prima i beni per la casa in eccesso di 1.000 dollari. Se c’è un regime autoritario nel futuro americano, Ronald Reagan si è calato nella parte del fascista amichevole».
L’evocazione del «fascismo amichevole» in Re per una Notte – letteralmente, un populista violento che può riscuotere applausi in uno spettacolo come quello di Johnny Carson – era ben presente ai suoi tempi. Riflettendo la posizione di classe della sua testata, la famosa critica newyorkese Pauline Kael ha stroncato il severo sguardo sugli anni Ottanta del film rimpiangendo «il tempo in cui nei film comparivano eroi e eroine idealistici, un tempo in cui c’era la promessa di appagamento sessuale». Il suo contemporaneo, il critico David Ehrenstein, ha deriso il fatto che la parodia di Kael per un’America perduta e pura «suoni per tutto il mondo come Ronald Reagan».
Come ha osservato Ehrenstein nella sua recensione, «il problema è che Re per una Notte arriva troppo vicino all’osso della questione per ricevere l’approvazione del pubblico di massa su larga scala o per riscuotere l’unanime consenso della critica mainstream… In un momento in cui il mondo del film indugia nei facili sentimenti, Re per una Notte rappresenta un assalto frontale. Il trionfo dell’omino si rivela essere nient’altro che lussuria lumpen neofascista». Ma per quanto Re per una Notte abbia sapientemente alzato il sipario sul sorridente, ridente culto della violenza di Reagan, Joker ha il potenziale per rappresentare ancor più appropriatamente un amabile leader populista di destra.
Nella prefazione del 1985 al suo libro Friendly Fascism, il politologo Bertram Gross ha citato la descrizione di Reagan di Mark Crispin Miller: «Come un buon spot televisivo, l’immagine di Reagan si attenua facilmente, calmando il suo pubblico con dolci ribaltamenti della verità… Ha imparato a ravvivare ogni apparizione televisiva con frequenti cambi di espressione, movimenti costanti della testa, tante risate calde e scrollate di spalle ironiche».
Questi attributi fisici hanno più di una somiglianza passeggera con Rupert Pupkin e la versione terrificantemente umana di Jaquin di Joaquin Phoenix. Ma, ci ricorda Miller, l’apparenza della profondità morale non dovrebbe privarci di quello che si nasconde dietro la maschera: niente, un vuoto indifferente ego maniacale. «Il modo migliore per tenere nascosto il suo vero sé… è non averne uno… La maschera e il viso di Reagan sono un tutt’uno». Nel crogiolo della violenza reazionaria, il confine tra performer e performance evapora.
Non c’è dubbio che le allusioni di Joker al reaganismo siano più sottili rispetto ai riferimenti alla violenza dell’estrema destra di questi tempi. Ma invocando la politica di Re per una Notte, il film di Phillips rappresenta un potente promemoria del fatto che l’uso della comicità, della performance e della celebrità da parte dei populisti di destra oggi è tutt’altro che terreno di fiction. I Joker di oggi possono spaventare, ma sono semplici imitatori del re originale, ridacchiante e sorridente.
*Aaron Freedman è uno scrittore, vive a Brooklyn, New York City.
Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è di Giuliano Santoro.
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