È una stagione cinematografica fortunata. Dopo il meraviglioso Oppenheimer di Nolan, arriva in sala Anatomia di una caduta di Justine Triet, vincitore della palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes. Un film che avvocati e magistrati dovrebbero vedere.
La trama è semplice: due scrittori vivono in uno chalet sulle Alpi francesi insieme al figlio undicenne ipovedente che, di ritorno da una passeggiata con il cane, trova il padre morto, precipitato da una finestra. In casa c’è solo la madre che non si è accorta di nulla e viene risvegliata dalle urla del bambino. Suicidio o omicidio? Dopo un anno di indagini, la Procura decide il rinvio a giudizio della donna, imputata della morte dell’uomo. Il film segue il processo fino al suo esito, deciso da un sorprendente colpo di scena.
Anatomia di una caduta è un bellissimo film europeo ( francese) che ci costringe ad una riflessione profonda sul concetto di verità ( non solo processuale) attraverso la mise en scene di un processo penale di cui sono tutti vittime: il padre, morto, la madre, imputata, il figlio, testimone, la cui vita viene vivisezionata ed esposta alla pubblica curiosità nel tentativo di trovare un movente che giustifichi il presunto omicidio. Così la ricerca della verità viene confusa con la disperata rincorsa all’affermazione di una tesi (colpevole per l’accusa o innocente per la difesa) che non tiene in alcun conto i sentimenti delle vittime, togliendo certezze alle loro già vulnerate esistenze e costringendoli a fare i conti con il racconto che altri ( poliziotti, psicoterapeuti, etc) fanno della loro famiglia, non più disfunzionale di quella di ognuno di noi.
Fin qui siamo dalle parti di Otto Preminger di Anatomia di un omicidio o di Kurosawa di Rashomon, ma Triet, che è anche sceneggiatrice insieme ad Arthur Harari, va oltre. I due protagonisti sono scrittori che attingono, soprattutto la donna, dalla loro vita per scrivere le storie che pubblicano. Il film improvvisamente si addentra in una riflessione sul rapporto tra la verità e il racconto che supera il già visto film processuale e giunge a conclusionali davvero universali. La verità non esiste. Esiste, piuttosto, il racconto che noi facciamo a noi stessi ( cioè, più semplicemente, l’interpretazione del ricordo) di uno o più episodi della vita. Questo racconto costruisce la nostra singola verità, l’unica che siamo capaci di afferrare. E questo procedimento mentale, che tutti abbiamo (più o meno consapevolmente) sperimentato, diventa evidente nell’aula di giustizia di Grenoble dove addirittura le pagine dei romanzi dell’imputata sono utilizzate dall’accusa come presunzione della prova di una premeditata volontà criminale. Questa zona del film, che è anche la più attuale e originale, spinge lo spettatore a chiedersi se lo scopo di ogni processo sia davvero l’accertamento della verità (quasi sempre irraggiungibile) o piuttosto si esaurisca nella sua funzione sociale (sempre imprescindibile): la tensione verso un’utopia (dare/ amministrare Giustizia), necessaria alla sopravvivenza di una società che si crede fondata sul Diritto, pur nella consapevolezza che il processo è uno strumento umano e, perciò, fallibile che genera comunque ferite non rimarginabili.
Per spiegarci questo concetto, in un abile gioco di specchi, Triet mette in scena la vita di una famiglia – già vittima di un lutto non ancora superato – che viene, nel processo e sui giornali, definitivamente devastata, dando rilievo a singoli momenti del loro quotidiano esistere che non fanno il tutto, ma vengono utilizzati dalla accusa e dalla difesa per ottenere la vittoria processuale. Finché il figlio, cieco (eccezionale invenzione narrativa), non deciderà di superare le sue paure e dare un senso a quella dolorosissima esperienza, vissuta in prima persona senza che nessuno tenga davvero conto della sua giovane età, “scegliendo” la sua verità e così mettendo sostanzialmente fine al processo.
Non sapremo, nessuno lo sa mai, se la madre sia colpevole o innocente: se si sia trattato di omicidio o di suicidio. La Corte decreterà il suo verdetto. Ma rimangono scolpite la frase finale della protagonista: “Se vinci ti aspetti un premio, ma è solo tutto finito”; e la risposta del suo avvocato: “Forse è solo che noi ci aspettiamo troppo”. Dalla vita? Probabilmente. Dalla Giustizia? Sicuramente.
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