Ringrazio l’amico e compagno Enzo Scandurra di aver interloquito (sul manifesto del 1 febbraio) con quanto avevo provato a scrivere sul film Perfect days.
Il protagonista si chiude in una solitudine felice della cura del proprio quotidiano? Rinuncia a cambiare in meglio il mondo, lottando con gli altri? In parte sì, o per lo meno così può sembrare. Io ci ho letto la ricerca di un nuovo tipo di relazione con se stessi e il lavoro, e con gli altri. Le altre e gli altri del mondo umano. Ma anche gli “altri” dell’ambiente che ci circonda. Le piante per esempio. Non solo accudendole, ma anche ammirando i giochi che sanno fare con i raggi del sole, i riflessi delle loro ombre.
Cose che alludono a un cambiamento di sé: si capisce che il protagonista ha cambiato vita, lasciandosi alle spalle un modo di essere che non ha più condiviso. Grazie a una ricerca più attenta del proprio desiderio.
Enzo si chiede se per “fare la rivoluzione” si debba necessariamente passare da un cambiamento di se stessi. O se invece una rivoluzione possa vincere facendo a meno di questo passaggio – ridiciamolo – dal personale al politico. Credo che sappia bene, e in parte lo dice mentre solleva la domanda, che una rivoluzione priva di quel movimento interiore e dei suoi riflessi, non può produrre mutamenti desiderabili.
Essersi affidati nel passato alla fiducia in meccanismi sociali guidati da presunte “leggi” della storia, contraddizioni materiali che avrebbero prodotto sintesi “superiori”, insomma qualcosa in un certo senso “fuori di noi”, che avrebbe cambiato le cose per una sorta di necessità, sia pure attivata da gesti soggettivi più o meno violenti, non ha dato buoni risultati. Anzi direi pessimi.
Ma questo non vuol dire, credo, rinunciare alla radicalità di un cambiamento “rivoluzionario”. Il quale dovrebbe nascere prima nelle nostre menti e cuori, e coinvolgere persone, altri viventi e cose che ci circondano.
Un esempio. Dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, grazie alle parole del padre e della sorella, c’è stato un moto di rivolta contro la violenza maschile sulle donne. Non solo grandissime manifestazioni, ma una presa di parola da parte di numerosi uomini che hanno finalmente detto la semplice verità: ci riguarda. Tutti noi, non solo chi sa di agire violenza, dobbiamo cambiare una cultura patriarcale che alberga in noi stessi.
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Per Giulia e le altre una piazza senza fine nel giorno dell’addioCredo che se questa intenzione di guardarsi dentro fosse compiuta davvero si scoprirebbe presto che della cultura patriarcale, da almeno mezzo secolo messa in crisi dalla reazione delle donne, dai pensieri del femminismo, fa parte anche l’attitudine maschile di pretendere di risolvere i conflitti ricorrendo alla violenza. Non solo la violenza personale, ma anche quella bellica. Che in fondo è, alla radice, la capacità di uccidere un’altra persona, un “nemico” che nemmeno si conosce, e di mettere in gioco la stessa propria vita.
Vediamo ormai tutti i poco santi giorni quanto siano assurde, mostruose, le argomentazioni di coloro che vedono solo in altra violenza bellica la possibilità di mettere fine alle guerre già scatenate. La guerra stessa diventa la necessità fuori di noi che pretende di essere l’unica soluzione.
Da tutto questo è giusto sottrarsi. Non per fuggire chissà dove o in una dimensione di illusoria solitudine. Non è vero, per quanto sia bello il verso, che “ognuno sta solo sul cuor della terra”. Noi uomini, che abbiamo per secoli preteso di fare e decidere tra noi soli come deve andare il mondo (non è questo il senso della parola patriarcato?) faremmo meglio a fermarci un momento. Provare a guardare meglio il sole tra le foglie e le ombre che danzano.
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