«Stiamo a mori’ e andiamo in giro a salvare le balene. Ma chi se le incula le balene?», dice Daniela in lacrime, finito il film del maestro Bologna. La proiezione nella piazzetta di Ventotene l’ha organizzata Mauro, inguaribile romantico che crede ancora nel valore del cinema d’autore, della cultura, della poesia. Siamo nell’estate del 2023, e quasi trent’anni dopo i protagonisti di Ferie d’agosto sono tornati sull’isola che ha fatto da sfondo alle vicende dei Montecchi e Capuleti dell’Italia degli anni Novanta, quella che ancora non aveva visto il decennio di Berlusconi, né il Pd di Renzi, e neppure, soprattutto, il Movimento 5 Stelle. Sono passati quasi trent’anni e i Mazzalupi hanno vinto, mentre i Molino spariscono nella nostalgia di un passato in bianco e nero che non si può più aggiustare.
Su Un altro Ferragosto, il nuovo film di Paolo Virzì che fa da seguito a Ferie d’agosto, stesso cast, molta malinconia, poco futuro al netto dei conti con un bilancio doloroso di tre decenni in cui è successa qualsiasi cosa, ho sentito pareri discordanti. C’è a chi non piace sfogliare i vecchi album di famiglia, chi pensa che ritornare sui propri passi sia una paraculata, per dirla in modo gentile, ma del resto lo hanno detto anche di Il sol dell’avvenire di Moretti, altro film con un rassegnato Silvio Orlando.
Personalmente, non appartengo a questa fazione, anzi, sono una che nella nostalgia ci sguazza, e con le commedie di Virzì ci sono cresciuta. Ferie d’agosto lo guardavo in VHS con la mia migliore amica, sedute sul tappeto di casa sua, senza capire la metà delle battute, giusto per arrivare a quel momento finale, «Stronzo! Io ti amo!», urlato da Sabry Mazzalupi al porto, salutando il suo amore impossibile. Non capivamo, ma ci faceva ridere, non eravamo noi, ma era come se fossero gli amici dei nostri genitori, persone che conoscevamo, che potevamo incontrare.
IL SUO MONDO
Ed è su questo aspetto che mi concentrerei, a proposito dei film di Virzì. È come se in trent’anni avesse creato un suo universo parallelo di personaggi, una tassonomia dei caratteri italiani, uomini e donne che non esistono, ma in cui tutti in qualche modo ci siamo imbattuti. Più che stereotipi, i caratteri di Virzì sono prototipi, esemplari caratteristici del loro genere, figure mitologiche che si tramandano. Daniela, la coatta di destra interpretata da Emanuela Fanelli, donna incattivita, te la immagini che sfreccia sulla sua smart, tagliandoti la precedenza. La vedi che fuma l’iQOS al chiuso, anche se qualcuno le ha chiesto gentilmente di smettere, e che riempie il suo profilo Instagram di foto con il suo bambino, piene di frasi esageratamente epiche, «Io e te contro tutti».
Dal lato opposto, ma ugualmente arrabbiato, c’è Sandro Molino, il personaggio di Silvio Orlando. Se in Ferie d’agosto la sua frustrazione deriva dalla prepotenza e dal menefreghismo dei suoi vicini di casa, «una manica di borazzi violenti, fascisti, fucilatori di gabbiani e cacciatori di extracomunitari», quintessenza dell’arroganza prevaricante della destra italiana, nel ritorno a Ventotene il dolore si è depositato in casa. Perché sì, la sua sofferenza nasce dall’impotenza che prova di fronte a un ennesimo gesto di maleducazione e noncuranza, ma la vera malattia, quella che lo divora, è un figlio che non capisce.
Un figlio miliardario, imprenditore del tech, che vive negli Stati Uniti e che usa il denaro non come mezzo di ostentazione – a differenza di Sabry Mazzalupi, arricchita con i social, vera parvenu – ma come subdolo strumento di controllo. Sandro Molino è la sinistra sparita, evanescente come quei ricordi antichi che lui prova a riesumare e a conservare, è la sinistra che ha aperto le porte al capitalismo e si è arresa.
Anche Giancarlo Iacovoni è molto arrabbiato. Urla contro Maurizio Costanzo e contro le sue conventicole, in Caterina va in città. È il 2003 e il Movimento 5 Stelle non è ancora arrivato, ma il personaggio di Sergio Castellitto, piccolo borghese con velleità letterarie, sembra incarnarne tutti gli aspetti parossistici: il senso di esclusione dalle élite che diventa collera, l’impotenza verso la sua immobilità sociale. Mentre il ministro di destra, interpretato da Claudio Amendola, va via a braccetto con l’intellettuale di sinistra, Flavio Bucci, Iacovoni guarda sconfortato, arreso. Nel frattempo, sua figlia Caterina è sparita, la scuola lo ha sospeso dal suo incarico, e sua moglie lo tradisce con il suo amico d’infanzia. Come fa Iacovoni a non avercela col mondo?
Piero Mansani dovrebbe aver voglia di fuggire su una vecchia moto e mandare tutti a quel paese, come Iacovoni, eppure in Ovosodo non lo fa. Piero e Caterina hanno qualcosa di simile, vengono trascinati dagli eventi e dalle persone che incontrano. Caterina con Daniela Germano, la pariolina che tifa Lazio e canta gli inni fascisti, o con Margherita Rossi Chaillet, la zecca con la casa in centro e il poster di Che Guevara in cameretta, Piero con Tommaso.
Tommaso, dread e piglio da centrosocialino, è il figlio del padrone miliardario dell’industria dove andrà a lavorare Piero, eppure si comporta come se il proletario, tra i due, fosse lui. Piero resterà a Livorno, impiegato in fabbrica e giovane padre con tutte le belle speranze per il futuro riposte nel cassetto, con quell’ovosodo che non va né giù né su, Tommaso se ne andrà negli Stati Uniti, a fare della sua vita quello che gli pare.
Alla fine della sua avventura nella scuola che l’ha trattata come un animale da circo e che le ha fatto scoprire che quelli come lei e suo padre non contano nulla, Caterina dice: «Al contrario dei pesci che coi loro occhi guardano di lato e delle mosche che invece guardano dappertutto, noi umani possiamo solo guardare avanti».
C’è questo senso di speranza nei personaggi di Virzì, capaci di convertire la propria sfiga in qualcosa per cui essere felici, come la pubblicazione del saggio su Heidegger e i reality show di Marta, la protagonista laureata in filosofia che lavora in un call center di Tutta la vita davanti, piccoli barlumi di fiducia. Ma c’è anche l’onestà, in questo bestiario umano, di non fingere che tutti, destra o sinistra, zecche o parioli, proletari o borghesi, ex giornalisti de L’Unità o palazzinari truffaldini, alla fine non ce lo domandiamo. Ma chi se le incula le balene?
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