Nei confronti di Craxi, ha raccontato Gianni Amelio in questi giorni, lui non ha mai avuto simpatia, anzi la sua «prepotenza» e il suo «presenzialismo» esibiti quando era al potere lo infastidivano persino. Poi sono arrivati i giorni di Tangentopoli, le inchieste del pool di Mani Pulite, all’alba degli anni Novanta, i processi che smontano il sistema politico italiano fino allora al potere di cui il leader del partito socialista è subito uno dei principali imputati.
GLI ITALIANI lo condannano prima della giustizia sotto a un cumulo di monetine lanciate fuori dall’hotel Raphael, la sua residenza romana, l’episodio che per Amelio è un po’ l’origine di questo suo film. Non fu un bello spettacolo, e lo stesso regista lo cita seppure trasportato in Tunisia, con la comitiva di turisti che riconoscendo Craxi gli sputa addosso quel «ladro, ladro», motivetto vincente – al di là delle situazioni – negli anni a venire per tanti amanti del giustizialismo alla ricerca di nuovi guru, perché alla giustizia, e soprattutto alla politica, sostituì una idea diffusa di «giustizialismo» che in sé non produce cambiamenti profondi e meno che meno rivoluzioni.
Ma questo non significa non riconoscere a Craxi e a quella stagione politica precise responsabilità su quanto accadde e accadrà dopo di loro, negli anni del berlusconismo, unica figura politica citata in modo esplicito e frontale nel film, quella di Berlusconi, attraverso lo schermo della tv che allora era la narrazione del Paese, suo amico e sostenitore.
Ma non è qui che lavora il film di Amelio, non solo almeno, escludendo anche il biopic nonostante il titolo esplicito, Hammamet, ovvero il luogo dove Craxi si «esiliò» – «sono un esule politico» diceva di sé, accolto dal suo amico tunisino, il dittatore Ben Alì, e dove morì per un infarto ultimo atto di molte malattie, 20 anni fa senza mai più tornare in Italia – ma vi voleva rientrare solo da «uomo libero».
Così come è più che esplicito il volto del politico, ricostruito con maniacale precisione addosso a Pierfrancesco Favino, che vi entra dentro quasi incollandosi alla «maschera», pure se poi il suo nome come quello di quasi tutti gli altri personaggi non viene mai fatto: lui è il Presidente, circondato da figure vere o inventate, da fantasmi di un tempo che almeno in apparenza si vuole estinto, da visite improvvise di politici della sua stagione che hanno scelto altre direzioni – come l’anziano democristiano interpretato da Renato Carpentieri – sopravvivendo tra omissioni, sfumature, narrazioni ambigue.
Dunque? Amelio sceglie un punto di vista parzialissimo e si concentra sugli ultimi mesi della vita di Craxi, quando tutto è accaduto – e sembra già lontano in quella che doveva essere la «nuova Italia» – con un solo guizzo temporale un po’ più indietro, nell’89, anno della consacrazione con plebiscito quasi unanime alla guida del partito – e dedica a Pertini – mentre però cominciano a aprirsi le prime crepe – chissà se in coincidenza con il sommovimento della geopolitica mondiale? – il suo vecchio amico e tesoriere del partito, Vincenzo Balzamo (Giuseppe Cederna) prova ad avvisarlo di pedinamenti, domande, strane perquisizioni, l’altro gli ride in faccia suggerendogli di prendersi una vacanza.
NEL ’99, A HAMMAMET, Vincenzo l’ex operaio che non aveva mai smesso la tuta è morto suicida – se il riferimento è Balzamo morì invece di infarto. Accanto al Presidente è rimasta la moglie (Silvia Cohen), silenziosa davanti alla tv, col figlio – cioè Bobo Craxi – i rapporti sono tesi, mentre il suo «angelo» è la figlia, Anita (e non Stefania come è) – in omaggio alla compagna di Garibaldi che per Craxi è sempre stato un riferimento storico importante, e anche «l’amante», colei davanti alla quale vorrebbe chiudere gli occhi per sempre – come confida proprio alla figlia – non ha nome, fugace comparsa nel paesaggio tunisino per un breve e in fondo asettico addio.
Chi è allora il Presidente, Bettino Craxi o «uno per il tutto», un simbolo appunto al di là del giudizio per affrontare quella storia italiana recente che seppure accaduta nel secolo scorso – come ci ricordano i cartelli – è ancora qui con moltissime ombre?
Non si tratta di «giudicare» o di schierarsi che a questo non serve il cinema ma di provare a costruire possibili letture, spunti di discussione che senz’altro questo film accenderà al di là di sé, e della sua riuscita.
AMELIO evita un confronto diretto, come accade spesso nella rilettura del passato italiano, e lo sposta altrove. Non tanto nell’intimità, perché pure se siamo in famiglia, con Pasque in giardino e chitarre che suonano il Dalla di Piazza Grande, di privato si parla poco.
Craxi infatti si proietta sempre nella politica, nel suo conflitto, in ciò che significa (per lui) democrazia, che tutto si paga, pure la porchetta, che la legge lui non l’ha mai violata.
A sprazzi affiorano nei giochi del nipote le sue scelte politiche, Sigonella, per esempio e il rifiuto di consegnare agli americani i militanti palestinesi, o la «modernità» dei socialisti, le aspirazioni internazionali, e poi l’astio verso la magistratura. Il suo «popolo» contro l’attualià della «gente» (di funariana memoria…), le responsabilità rimangono confuse ma del resto è la sua voce che ascoltiamo…
MENTRE LA STORIA come sempre Amelio la cerca nel rapporto tra i padri e i figli; Anita (Livia Rossi) imperterrita nella sua difesa del padre che non ascolta altre ragioni, e quel ragazzo, il figlio di Vincenzo, Fulvio, che piomba lì nella dimora tunisina all’improvviso con una lettera di disprezzo contro Craxi ma che in realtà cerca vendetta: per la morte del padre, per la vergogna, per la sua follia che il padre lui vorrebbe averlo ucciso spinto di sotto dal balcone e a Craxi vorrebbe tirargli un colpo in testa.
Sono loro la realtà concreta di quel deserto, di quella devastazione, di un fallimento generazionale, che produce silenzio, individualismo, indifferenza, azzerando la condivisione, l’empatia, la parola comune.
EPPURE qualcosa manca, ma cosa? Quella Storia, quell’Italia, la realtà ostentata nella mimesi di Favino? Chissà se temendo di lasciarsi invischiare nella «cronaca» Amelio (autore anche della sceneggiatura) sfugge con scelte talvolta formalmente non felici – l’incontro tra l’amante di Craxi, il finale onirico con Bagaglino forcaiolo – mancando un’occasione che non è quella di «fare i conti» col passato ma più semplicemente provare a guardarlo nel suo contesto, nei suoi conflitti e nelle sue contraddizioni senza figure «archetipe» quando non necessarie.
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