Questo articolo è stato pubblicato su «la Lettura» #418 del 1° dicembre 2019
Un film di un grande del cinema italiano, Hammamet di Gianni Amelio, e il ventesimo anniversario, che sarà celebrato proprio ad Hammamet, della morte del leader del Partito socialista possono finalmente mettere fine alla leggenda nera che ancora oggi circonda la vicenda storica, politica e umana di Bettino Craxi. Per smettere di appiattirla e svilirla come mera vicenda giudiziaria, addirittura come fatto criminale: una losca storia di guardie e ladri, la demonizzazione di una memoria che distorce ciò che il craxismo è stato nelle vicissitudini della sinistra italiana di cui Craxi, invece messo al bando simbolicamente come se fosse un Al Capone travestito da leader politico, ha avuto per quasi vent’anni un ruolo centrale.
Non sarà certo solo un film, sia pure girato con la consueta maestria da Amelio e interpretato dal bravissimo Pierfrancesco Favino, a ricostruire i tratti di una storia ancora dannata nel discorso pubblico del nostro Paese. Ma abbiamo finalmente l’occasione per rileggere il fenomeno craxiano nei suoi aspetti innovativi e anche in quelli, controversi, che hanno alimentato attorno alla figura del leader socialista tante ostilità, destinate ad accendere il furore che nella stagione di Mani pulite ha tragicamente accompagnato il tonfo politico e umano di Bettino Craxi, fino agli ultimi giorni di Hammamet.
Cominciamo dalle parole. Apparirà strano a chi non ha vissuto quell’epoca nemmeno tanto lontana, ma per esempio «riformista», nella sinistra maggioritaria in un’Italia già immersa nella modernità, era quasi una parolaccia, e infatti solo i socialisti di Craxi la usavano con convinzione e senza riserve mentali.
Certo, anche «rivoluzionario» non era più espressione frequentata nel Pci, e tuttavia l’evoluzione culturale non poteva ancora avere una sua compiuta ratifica lessicale. «Riformista» era uno strappo troppo profondo, un passaggio troppo brusco. Si preferiva piuttosto «riformatore», termine più pudibondo e meno ideologicamente compromettente, e se negli anni Settanta si volevano le riforme e non più la rivoluzione, se i comunisti governavano intere Regioni e molte città e assorbivano nel loro orizzonte politico la concretezza del mondo sindacale, occorreva però aggiungere, quasi liturgicamente per allontanare la tentazione della diluizione ideologica e dello scolorimento identitario, che fossero «di struttura»: «riforme di struttura», così si allontanava almeno nel frasario lo spettro del pericoloso riformismo. Dimenticando, però, che poi riformismo non è soltanto un metodo, una strada più lenta e meno violenta per raggiungere il medesimo obiettivo, come se la differenza tra salto rivoluzionario e riformismo fosse principalmente una questione di velocità, ma proprio un altro obiettivo: la correzione «riformista» del capitalismo e del mercato a favore dell’eguaglianza, e non già l’uscita (la «fuoriuscita», si usava dire con formula che appariva chissà perché più elegante) dal capitalismo a favore di un’economia pianificata dove il mercato sia umiliato e persino abolito. Anche «socialdemocratico», del resto, risultava al tempo termine indigesto, quasi un insulto. Nella casa craxiana invece no, perché nell’Internazionale socialista che raccoglieva le forze riformiste in Europa, la socialdemocrazia era un orizzonte condiviso, almeno dal Congresso della Spd tedesca a Bad Godesberg, che sancì nel 1959 l’abbandono del marxismo.
Craxi impose a una sinistra italiana ancora riluttante e malmostosa la sfida della cultura riformista che era orgogliosa di definirsi tale. Il Psi, che stava per estinguersi e che nelle elezioni politiche del 1976 aveva raggiunto il minimo storico, invece non era infiammato da questo orgoglio, a parte la sensibilità dell’autonomismo di Pietro Nenni, sul cui terreno il craxismo era cresciuto. Ma fu Craxi ad aprire quello che Luciano Cafagna, uno studioso acuto del mondo riformista (cresciuto con Antonio Giolitti assieme a Giuliano Amato) e la cui grandezza stenta anche oggi ad essere riconosciuta come dovrebbe se non incombesse l’ombra di una sciocca damnatio memoriae antisocialista, avrebbe definito «duello a sinistra». Ed era la forza e anche la baldanza di chi aveva scatenato questo «duello» ad alimentare attorno alla figura di Bettino Craxi un’atmosfera di ostilità, se non di demonizzazione ideologica.
Un Psi subalterno, culturalmente arrendevole, politicamente gregario, tendenzialmente frontista, era un interlocutore accettabile per un partito di massa, tre volte più grande, egemone nel mondo della cultura, fortemente radicato nel senso comune di sinistra come il Pci. Ma Craxi era tutto il contrario, ed era un «contrario» aggressivo, fortemente fiero della propria autonomia e diversità.
Cominciò presto a diffondersi nel Pci ancora «eurocomunista» la leggenda nera di un Craxi colpevole di aver sottoposto la nobile tradizione del socialismo italiano a una snaturante «mutazione genetica». Nell’immaginario della sinistra vicina al Pci, l’hotel Raphael, dove Craxi aveva posto il suo quartier generale, stava diventando quasi il covo del nemico (che poi si vorrà espugnare a suon di monetine e con le forme di un linciaggio simbolico nel momento più incandescente di Tangentopoli, anche a costo di mescolarsi davanti all’albergo-covo con leghisti e fascisti). Nelle feste dell’«Unità» si esibiva come forma iconica di avversione assoluta per il rivale del Psi «la trippa alla Bettino»: un fossato psicologico tra due partiti che sembravano ripiombati nello stesso clima scissionista del 1921, quando a Livorno si consumò, proprio alla vigilia del fascismo, la rottura leninista con il partito di Filippo Turati.
Del resto Craxi non perdeva occasione per marcare la differenza rispetto al Pci e al clima del compromesso storico che rischiava di schiacciare tutte le forze intermedie. Nei giorni del rapimento Moro (16 marzo-9 maggio 1978) occupò lo spazio di una posizione favorevole alla trattativa per la liberazione del leader democristiano, privilegiando la difesa della persona sul culto statolatrico della politica, attirando su di sé l’ira dello schieramento della «fermezza». Non ebbe esitazione, malgrado le ambigue piazze pacifiste del «meglio rossi che morti», a pronunciarsi per l’installazione dei Pershing e dei Cruise nella base di Comiso (fortemente voluta e promossa, è il caso di ricordare, dal cancelliere socialdemocratico tedesco di allora, Helmut Schmidt) come risposta all’offensiva sovietica dei missili SS-20. Volle cancellare dal simbolo l’icona dal sapore bolscevico della falce e martello in favore di un garofano come contrassegno di una sinistra liberale, e persino «anticomunista», termine tabù almeno fino al crollo del muro di Berlino. E qualche anno dopo aprì un contenzioso sulla sterilizzazione della scala mobile, come misura anti-inflazionistica in un’Italia massacrata da un’inflazione mostruosa, destinato a provocare una frattura radicale con la maggioranza della Cgil.
Craxi era duro, determinato, amato dai suoi seguaci ma circondato da un’antipatia invincibile da parte dei suoi detrattori. In un congresso socialista a Verona, non esitò, violazione plateale del bon ton politico, ad assecondare i fischi verso l’ospite Enrico Berlinguer. Era caratterialmente sbrigativo, con un’ombra di arroganza che secondo i suoi avversari non poteva che riflettersi negativamente sulla natura della sua stessa leadership politica.
La sua predicazione a favore del cosiddetto «decisionismo», di una democrazia capace di decidere, emancipandosi dalle pastoie della lentezza consociativa e della paralisi istituzionale, che oggi appare quasi un’ovvietà, venne perciò liquidata come una velleità autoritaria e Craxi prese ad essere raffigurato con indosso gli stivali mussoliniani. La «grande riforma» craxiana fu vista e vissuta addirittura come un pericolo per la democrazia e non come un’opportunità per la sua rigenerazione. Qualche lustro più in là, con la Prima Repubblica in soffitta e Craxi confinato ad Hammamet, i contenuti della riforma craxiana entreranno nel cuore del dibattito politico, ma nessuno volle chiedere scusa a chi era stato bollato come «fascista» per avere proposto un disegno istituzionale troppo in anticipo sui tempi.
Ma il paradosso principale è che proprio in quegli anni venne da parte socialista, anche grazie al riconoscimento di una sensibilità comune con i radicali di Marco Pannella, un risveglio nella difesa garantista dello Stato di diritto (alimentata dallo sfregio che si consumò con la persecuzione di Enzo Tortora) e nella battaglia a favore dei diritti civili. Un’attenzione liberale e libertaria e liberal-socialista (si parlò molto allora, specialmente con Enzo Bettiza, di un polo cosiddetto Lib-Lab), poco frequentata nella sinistra italiana e non solo italiana, e che peraltro è stata alla base della martellante polemica socialista e craxiana sulla natura irrimediabilmente autoritaria e liberticida dei regimi comunisti.
Oggi sembra quasi lunare che si dovesse polemizzare sul totalitarismo comunista con chi non aveva spezzato in via definitiva tutti i legami con il mondo circondato dai reticolati del Muro di Berlino, ma ancora nel cuore degli anni Settanta Carlo Ripa di Meana, molto vicino al nuovo corso craxiano, venne fatto bersaglio di attacchi furibondi dai maggiorenti della cultura comunista per avere organizzato a Venezia una Biennale del dissenso che pure godeva del sostegno di Andrej Sacharov, perseguitato dal regime sovietico. La guerra contro la cosiddetta «propaganda anticomunista» era ancora in piena attività e solo tre anni prima da parte degli intellettuali del Pci Aleksandr Solženitsyn era stato accusato di avere «esagerato» con la sua denuncia del Gulag.
Poi naturalmente la nostalgia gioca brutti scherzi, e si ricostruisce il passato depurandolo delle sue brutture. Come è una bruttura la condanna all’oblio che pesa ancora sulla figura di Craxi, svilita a caso giudiziario, cancellando un pezzo di storia italiana e un pezzo importante della storia della sinistra.
Quando Massimo D’Alema entrò a Palazzo Chigi, qualcuno ebbe per esempio l’ardire di sostenere che si trattasse del primo uomo di sinistra a diventare premier. Era un errore, una gaffe storica, se non una menzogna deliberata, molto simile a quella diffusa da chi qualche anno prima aveva insinuato che il leader del Psi avesse addirittura depredato la fontana milanese davanti al Castello, trasportandola nottetempo ad Hammamet: una orribile fake news che nessuno ebbe il desiderio di contrastare nel furore della «caccia al Cinghialone». A precedere D’Alema a Palazzo Chigi era infatti stato proprio Bettino Craxi, leader di una sinistra riformista, liberale, moderna, ma senza soggezione nei confronti del potere incontrollato del mercato e del salotto buono dell’economia, che infatti lo ripagò con l’ostilità e addirittura con forme nemmeno velate di diffidenza antropologica.
Se questa clamorosa dimenticanza non verrà sanata, ancora una volta non saremo stati capaci di fare i conti con noi stessi e di raccontare una storia completamente diversa dalla demonologia di comodo che ha dominato la memoria collettiva in questi ultimi vent’anni sulla stagione craxiana. Non per fare l’agiografia di Craxi, che commise molti e imperdonabili errori, ma per ristabilire un minimo di verità storica. Ben vengano un film e un anniversario per ricominciare a capire quello che è accaduto.
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