lunedì 6 gennaio 2020

INTERVISTA CON M. GARRONE. F. DAVI, INCONTRO CON MATTEO GARRONE, NONSOLOCINEMA, 11 novembre 2004

Il regista Matteo Garrone si racconta al pubblico, dopo la proiezione de "L'imbalsamatore"
La formazione
“La fotografia, il teatro e la pittura costituiscono la mia formazione: mio padre è un critico teatrale, mia madre una fotografa ed io ho frequentato il liceo artistico. Dopo il diploma ho lavorato per qualche anno come aiuto operatore con Marco Onorato (che resterà al suo fianco in tutti i suoi lavori, NdR).



Cinematograficamente sono un autodidatta ma questa esperienza mi è servita per capire cosa non va fatto durante la realizzazione di un film, i rischi e le trappole di un progetto cinematografico e contemporaneamente ha suscitato in me un interesse per la scrittura e per il cinema in generale. Dopo questa esperienza credevo di aver terminato il mio rapporto con il cinema e ho ripreso a dipingere, riuscendo anche ad aprire un locale espositivo. La pittura è stata un’ottima palestra, per il mio cinema futuro, per la sua tendenza ad essere narrativa; volevo già raccontare delle storie sintetizzandole in un unico “fotogramma”. Mi dedicavo ad una pittura ad olio sin troppo figurativa; molti amici che hanno posato per i miei quadri successivamente sono entrati a far parte dei miei film. Proprio in questo periodo sono nate delle amicizie con persone che hanno poi lavorato insieme a me alla realizzazione dei miei film, come Paolo Bonfini, scenografo degli ultimi film, Salvatore Sansone, presente in ogni mio film davanti o dietro la macchina da presa, e Marco Spoletini, montatore. I primi film che ho realizzato erano autoprodotti, con pochi soldi ma senza rinunce, insieme ad un gruppo compatto di collaboratori che costituiscono ancora adesso il nucleo della troupe con cui lavoro.”
Il ruolo di regista
“Credo che il regista debba coordinare i collaboratori, dando loro la possibilità di esprimersi nel migliore dei modi, tirandone fuori il massimo. Nei primi film si partiva da personaggi, dinamiche o situazioni che mi sembravano interessanti e da quelle cercavo di trarre una storia completa mentre per gli ultimi due film ho compreso l’importanza della sceneggiatura, anzi dell’importante scambio, un vero e proprio gioco di squadra, che deve esserci tra montatori e sceneggiatori. Effettivamente considero il montaggio una seconda fase di scrittura. La sceneggiatura è un progetto che può essere tradito, rielaborato durante le riprese. Amo girare in sequenza perchè mi permette di capire se la sceneggiatura va bene oppure no, oltre al fatto che in questo modo la storia e i personaggi prendono corpo contemporaneamente. Negli ultimi film, non più autoprodotti, ho sempre preteso dal produttore la clausola di poter riprendere a girare dopo la fine delle riprese, dopo appunto la fase del montaggio, mentre le riprese delle prime settimane vengono usate pochissimo perchè siamo tutti arrugginiti o emozionati. Penso di aver imparato qualcosa sulla regia proprio lavorando al montaggio e successivamente con la stesura delle sceneggiature: stare sul set è affascinante ma non è li che si impara, è una posizione senza un punto di arrivo. Considero il rapporto con gli attori e la troupe molto importante per la riuscita del film: è un lavoro ma bisogna che stiano tutti bene come se fosse una festa. Cerco sempre di rendere il confine tra i personaggi e gli attori molto labile ma, per gli ultimi film, gli attori sono stati scelti all’inizio del lavoro di sceneggiatura e sono risultati perfetti. La scelta di Vitaliano Trevisan per il ruolo di protagonista di “Primo amore” è totalmente casuale: io l’avevo conosciuto ad una premiazione e mi aveva colpito molto la sua ironia. Tempo dopo volevo scrivere una sceneggiatura ambientata nel nord-est italiano e mi sono rivolto a lui. Un giorno mi chiama e mi dice che ha delle idee per il film, allora prendo la macchina e lo raggiungo a Vicenza, partendo da Roma, per scoprire che mi doveva dire due cosette che poteva raccontarmi benissimo per telefono. Così dopo appena quaranta minuti ero di nuovo in macchina per tornare a casa quando mi è venuto in mente che sarebbe stato perfetto per il ruolo di protagonista. Gliel’ho proposto ed ha accettato, fortunatamente. In generale penso che la crescita, lo spessore psicologico dei personaggi sia più importante delle parole, voglio che all’attore arrivino le parole durante l’azione, non c’è mai un ciak uguale all’altro, sono tutti dei momenti irripetibili. I movimenti della macchina da presa nascono in base ai colori, all’ambiente da riprendere, per questo voglio stare dietro alla macchina da presa quando ci sono delle riprese con del movimento: l’emozione del fotogramma è la stessa che si rivive al cinema e si crea una danza tra l’attore e la macchina da presa, mi sento libero di improvvisare purchè sia sempre la macchina da presa a seguire gli attori e non viceversa. Se la macchina da presa è fissa posso anche assistere alle riprese seduto davanti al monitor e lasciare il posto a Marco Onorato.”
L’imbalsamatore
“Per “L’imbalsamatore” abbiamo lavorato un anno alla sceneggiatura partendo da un fatto di cronaca avvenuto alla stazione Termini di Roma nel 1990 riguardante storie di sesso e droga. Non credo sia importante, in questi casi, la fedeltà ai fatti anzi, secondo me bisogna eliminare molti fatti reali che trasposti in un film possono sembrare inverosimili, dei cliché. Il problema era che bisognava arrivare al tragico finale caratterizzato da un omicidio anche senza molti dettagli da cui quel gesto così estremo dipendeva. Il risultato è una fiaba nera, ambientata in luoghi sospesi, fuori dal tempo, immersi in un’atmosfera inquietante.”
Alcune domande dei presenti sul cinema di Matteo Garrone
D: “Quali sono i tuoi registi e pittori preferiti?”
R: “Ti posso dire qualche nome su tutti. Caravaggio, Velazquez, Bacon e Rembrandt per la pittura. Per il cinema sono stato un ammiratore di John Cassavetes (tra l’altro il suo primo cortometraggio si intitola “Shadows” e il mio “Silhouette”) e Ken Loach ma i loro ultimi film mi hanno colpito molto meno dei precedenti. Ultimamente mi sento più vicino a Lynch.”
D: “Come è cambiato il tuo lavoro da quando non ti autoproduci?”
R: “I cambiamenti più grandi consistono in una troupe di trenta persone mentre ero sempre abituato a lavorare con le stesse quattro o cinque e nel fatto che le scene sono ricostruite e che quindi al termine delle riprese vengono smantellate, il che rappresenta un bel trauma per me. Mi è stato fatto notare più volte che ho utilizzato il carrello per la prima volta in un mio film ne “L’imbalsamatore” ma non è stata una scelta dettata dal budget, semplicemente l’utilizzo del carrello mi dava la sensazione di arrivare tardi, di impiegare troppo tempo per qualcosa realizzabile in maniera più rapida. Ad esempio, in film precedenti abbiamo realizzato una sorta di carrello utilizzando un carrello per la spesa o un furgone spinto a mano. Comunque credo che sia il progetto a definire le dimensioni del budget, troppi soldi possono appesantire l’idea originale facendola divenire anemica.”
D: “Penso che il personaggio più riuscito de “L’imbalsamatore” sia Peppino Profeta: l’ho odiato dal primo momento che l’ho visto. Che ne pensi?”
R: “Peppino Profeta è un personaggio anche positivo, è l’unico in grado di vivere, di difendere un proprio sentimento fino alla morte.”
D: “Come avete affrontato il problema dello squilibrio di altezze tra i personaggi di Peppino e Valerio ne “L’imbalsamatore”?”
R: “Non lo abbiamo considerato un problema, è un elemento che abbiamo accentuato anzichè normalizzare per trasmettere un senso di disordine, di asimmetria allo spettatore.”

D: “Non credi che titolo e locandina de “L’imbalsamatore” siano fuorvianti?”
R: “Effettivamente molte persone pensavano che fosse un horror e sono andate a vedere il film proprio per questo.”
D: “Come mai i tuoi ultimi film sono pervasi da un’atmosfera cupa?”
R: “Non lo so esattamente, non è nelle mie intenzioni originali. Riconosco che anch’io quando ho visto “Primo amore” terminato sono rimasto colpito dall’inquietudine che trasmette”

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