lunedì 6 gennaio 2020

INTERVISTA CON M. GARRONE. N. MIRENZI, "Viviamo in un Nuovo Medioevo". Intervista a Matteo Garrone, HUFFPOST, 27 maggio 2018

Il tempo è stato suo complice: "Avevo in mente questo film da dodici anni. Quando ho finalmente deciso di farlo, l'ho finito in sei settimane, due prima del previsto, quasi di getto. L'ho girato con la precisione maturata attraverso Il Racconto dei racconti e, allo stesso tempo, con la libertà che sentivo nei miei primi film". 



Il fattaccio del canaro della Magliana, accaduto a Roma nel 1988, è il delitto da cui è partito Matteo Garrone per Dogman: "Poi, la storia ha preso la sua direzione autonoma e indipendente". Non ci sono i dettagli raccapriccianti della cronaca nera che, allora, appassionarono l'Italia. C'è, invece, la dolcezza, la schiavitù, l'amore, la forza, la tenerezza, l'abuso, la dipendenza, il candore, la paura, la grazia, e la forma di un tempo: "Viviamo in un Nuovo Medioevo. La violenza sembra dilagare in ogni angolo della nostra esistenza. Ascoltiamo notizie che ci lasciano sconcertati: stragi, sgozzamenti, uomini che annegano in mare, donne ammazzate dentro casa. Nulla di nuovo, in realtà. La violenza è sempre esistita: è nella natura dell'essere umano. Sono, piuttosto, gli strumenti per riuscire a rispondere alla brutalità che ci mancano. Siamo tutti in balìa dei meccanismi della violenza, come il personaggio del mio film. Mi domando da dove nasca questo male, come si diffonde, perché non riusciamo a lasciarlo fuori da noi. Non so come rispondere".





Il vizio della sociologia può far pensare che lo scenario in cui si muovono i personaggi di Dogman sia la periferia degradata, abitata da borgatari ritratti in una marginalità esotica e, in fondo, rassicurante. Invece: "L'ho pensato come il villaggio di un film western, un simbolo dell'intera società, dove i protagonisti incarnano degli archetipi e hanno delle storie che scavano dentro l'essere umano. C'è il saloon, il night con le escort, l'orizzonte senza fine, la frontiera, il malvivente, la comunità in cui si conoscono tutti, lo sceriffo che fa rispettare la legge. Ho immaginato il paesaggio come un fondale dentro il quale il protagonista, passo dopo passo, si inabissa, sprofondando".
Diceva Roberto Rossellini che il regista deve pedinare l'attore, seguendo ogni gesto che compie, ovunque egli vada. E non c'è attimo di Dogman in cui la telecamera non sia puntata su Marcello Fonte, il miglior attore in concorso a Cannes, secondo la giuria che l'ha premiato: "Sono vent'anni che pedino gli attori", sorride Garrone, seduto sotto una foto di scena di Reality, nello studio che è anche casa sua, a Roma. "Ho sempre pensato che deve essere la macchina da presa a seguire i personaggi, e non il contrario. Prima del regista, per anni, ho fatto l'operatore. Sul set, c'erano persone che segnavano i punti precisi in cui l'attore doveva fermarsi. Per me, è inconcepibile. Quando sono dietro la telecamera cerco di catturare i gesti irripetibili, quei movimenti che gli attori fanno dimenticandosi di sé, in maniera del tutto istintiva, esprimendo molto più di quanto si possa dire. Il mio lavoro è come quello di un pescatore: attendo che qualcosa accada, dopo aver creato le condizioni perché accada davanti all'obiettivo".
Stavolta, però, ha fatto delle prove.
"Per vari mesi, abbiamo lavorato sulle scene con gli attori. Non l'avevo mai fatto prima. Ora posso dire che ha funzionato, ma quanta paura che ho avuto".
Paura di cosa?
"Che si perdesse la sorpresa, l'immediatezza. Quando ho girato la storia di Marco e Ciro in Gomorra, i due attori non sapevano come sarebbe andata a finire. Volta per volta, davo loro la pagina del copione che avremmo girato quel giorno, e basta. Volevo che avessero l'incoscienza, l'energia, la convinzione che avrebbero fatto fuori tutti. Il giorno in cui gli dissi che sarebbero morti in un agguato, mi saltarono addosso: non volevano proprio saperne di morire. Ho dovuto attingere a tutto il repertorio della morte eroica del cinema, da Titanic in poi, per vincere le loro resistenze".
Con Marcello Fonte, invece, che ha fatto?
"Marcello ha un volto antico, il volto di un'Italia che sta scomparendo. Nel suo viso, c'è tutta la storia della sua vita: il mondo contadino, l'infanzia povera, l'ingenuità, l'allegria. Una faccia che oggi hanno solo gli immigrati. Marcello, spesso, recita solo con gli occhi. Per questo, l'abbiamo potuto immaginare come il personaggio di un film muto. Un moderno Buster Keaton, dolce e, a tratti, anche comico".
Ha dovuto liberarsi della sua formazione borghese per riuscire a sentirlo vicino?
"Non mi sono dovuto liberare di niente, perché io sono Marcello. Quando scelgo un personaggio, devo riuscire a sentire che fa risuonare dentro di me qualcosa di profondo e diretto. Altrimenti, non riuscirei a mettermi al suo fianco e soffrire, ridere, amare, entusiasmarmi insieme a lui".
In questo caso, cos'è stato?
"È mia la paura di Marcello, il suo amore per la figlia. È mia la fascinazione per la forza e il coraggio che posso non avere, o non aver avuto, magari quando ero più giovane. È mio il suo desiderio di essere accettato da tutti".
Perché non ci sono donne nel film?
"Ma è Marcello il personaggio femminile. La sua delicatezza, la sua premura: sono completamente femminei. E il rapporto con Simoncino, poi, ha una pura dinamica di coppia: con uno – solitamente il maschio – che diventa prevaricatore, e l'altro che si sente impotente, e ha paura".
Perché le interessano così tanto questi sentimenti?
"Perché mi riguardano. Attraverso i personaggi che incontro approfondisco dei lati di me stesso. E, quello che scopro, lo metto al servizio del racconto. Fare un film è come dipingere. L'oggetto che raffiguri è importante. Come lo raffiguri è decisivo".
Quanta pittura c'è nel suo cinema?
"Quando ero bambino, disegnavo in continuazione. Abbozzavo storie per immagini. Ne ho alcune di quando avevo sei anni. Poi, ho ripreso a dipingere a ventuno, ventidue anni. Dipingendo, ho costruito il mio rapporto con i colori, la luce, la messa in scena; e anche il mio metodo di interpretazione della realtà, che passa tutto attraverso la figurazione".
Da quale è partito per questo film?
"Dogman non nasce da riferimenti pittorici precisi. Per Il racconto dei racconti, per esempio, era stato fondamentale Goya, soprattutto i disegni dei Capricci. Per Pinocchio, a cui sto lavorando, sono stati i Macchiaioli il punto da cui ho iniziato. Mentre giravo questo film, però, mi sono reso conto che alcuni riferimenti pittorici venivano fuori lo stesso, del tutto inconsapevolmente".
Per esempio, quali?
"In certi momenti, mi veniva in mente Hopper".
(Garrone si alza, va nella sua stanza e torna nel salottino con in mano un bozzetto del negozio di lavaggio cani del film. C'è il protagonista appoggiato all'entrata, solo, in un luogo che sembra senza tempo)
"Non assomiglia a un quadro di Hopper? Poi, io amo il Seicento, Caravaggio. Certe cose riemergono sempre. Nel finale del film, invece, ritrovo alcuni lavori di Bacon".
Avrebbe preferito essere un pittore?
"No, e anzi sono molto attento a fare in modo che queste immagini non facciano sentire la nostalgia della pittura, come se il quadro potesse esprimere meglio del cinema quello che voglio mostrare".
Ha sempre voluto fare il regista?
"Ho cominciato a fare il regista per gioco. Un giorno, Marco Onorato venne da me e mi disse: "Mi è avanzata della pellicola. Ti va di girare qualcosa?". Avevo guadagnato e messo da parte dei soldi. Ho detto: "Perché no?"".
Come li aveva guadagnati quei soldi?
"Avevo un locale a Viale Archimede, ai Parioli, un disco club e un ristorante, nel quale lavoravo insieme a mia madre. Di pomeriggio, facevo feste per bambini".
L'idea del cinema non la sfiorava nemmeno?
"Il compagno di mia madre era un direttore della fotografia. Mi portava sui set e mi aiutò a fare l'assistente dell'operatore. Una certa aria l'ho sempre respirata. Poi, mia madre era una fotografa. Mio padre un critico teatrale e uno scrittore. Però, se non fosse stato per quel corto, premiato poi da Nanni Moretti al Sacher, forse non avrei mai fatto cinema".
Potrebbe vedersi senza?
"Sì, potrei".
Come si vedrebbe?
"Dentro qualche altra forma d'arte".
Questa come l'ha imparata?
"Da completo autodidatta, apprendendo tutto facendolo".
Si è scelto dei maestri?
"Quando feci Gomorra, la prima cosa a cui pensai fu Paisà di Rossellini".
Perché proprio lui?
"Perché, come diceva Fellini, era capace di re-interpretare la realtà attraverso la realtà stessa. Era contemporaneamente dentro e fuori di essa. Non riproduceva semplicemente l'esistente: lo ricreava".
Quali altri registi ha amato?
"Ho ammirato (e mi hanno influenzato) Ferreri, Germi, Pietrangeli, Scola, Monicelli, Pasolini e molti altri. E, ovviamente, Fellini".
Perché "ovviamente", il suo cinema sembra molto distante da quello felliniano.
"Il cinema mondiale è pieno di croci di registi caduti nel tentativo di essere i nuovi Fellini. Io ho cercato la mia strada, facendomi largo nei piccolissimi spazi lasciati vuoti da lui e dagli altri grandi. Fellini era un visionario. Il suo cinema nasceva dai suoi disegni. Sgorgava dalle immagini. Non ho l'imprudenza di accostarmi a lui, ma anche per me l'immagine viene prima di ogni altra cosa".
Potrebbe scrivere una serie tv?
"Credo che la serie tv sia più congeniale a uno scrittore. Nasce dalla parola, dalla volontà di narrare a fondo i personaggi, le storie. Per questo anche Niccolò Ammaniti se ne è sentito attratto, credo. Però sa una cosa? Quando lessi Gomorra di Roberto Saviano pensai: "Questo libro è perfetto per una serie televisiva". Avrei voluto farla, ma i tempi non erano ancora maturi".
Oggi la farebbe?
"Perché no? Ho amato moltissimo Twin Peaks, ho amato Heimat, ho amato altre serie. Però, confesso, ho una visione romantica del cinema: mi piace la sala buia, le persone che prendono posto sulle poltrone, il grande schermo dove puoi cogliere tutti i dettagli, ogni colore. Mi pare dia un'emozione che un televisore non può dare, benché di volta in volta li stiano facendo sempre più grandi, sempre più raffinati".
Dodici anni fa com'era Dogman?
"Si chiamava L'amico dell'uomo e aveva dentro molto de Le memorie del sottosuolo di Dostojevski. C'era l'inadeguatezza, la sensazione e di non sentirsi abbastanza uomo, la contraddizione tra la razionalità e l'istinto. Poi, il film è andato in un'altra direzione. Ma qualcosa è rimasto".
Nel frattempo, lei è diventato ancora di più un personaggio pubblico?
"Non so chi sia il mio personaggio pubblico".
È un regista piuttosto famoso.
"Rossellini diceva che quando un autore diventa un'autorità è finito".
Come può evitarlo?
"Rimanendo dentro l'opera e, data la pericolosità, stando alla larga da ogni possibile istituzionalizzazione".
Ora però sta facendo l'autore che parla del suo film con un giornalista.
"Lo faccio solo perché può servire a incuriosire qualche lettore, spingendolo ad andare al cinema a vedere Dogman. Altrimenti, non credo ci saremmo incontrati".
La notorietà non le piace nemmeno un po'?
"Mi gratifica quando qualcuno mi dice che ha apprezzato i miei film. Ma per strada nessuno mi riconosce. Posso vivere serenamente nel mio anonimato e, tra le mie ambizioni, non c'è quella di essere qualcuno".

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