Anna Negri, figlia di Toni: «La mia vita segnata da lui. Duro trovarsi bambini con i fucili in casa, la nostra famiglia fatta a pezzi»
Anna e il film in dialogo con il padre: «Serve a capirci prima di separarci»
"I think I like the image of life better than life because I don't think real life is as satisfying as film." — François Truffaut
Y. e Jasmine, un precario musicista jazz e la sua compagna ballerina fanno fa la “bella vita”. Si divertono abbandonandosi agli eccessi, frequentano i giri che contano e le feste esclusive di Tel Aviv. E donano “arte, corpo, anima” a chi offre di più. Di fatto, sono due persone che si prostituiscono, in un modo e nell’altro. Fisicamente, professionalmente, moralmente. Ma tutto questo sembra essere vissuto in maniera “indolore”, senza alcun segno di rimorso, in piena incoscienza, con gioia e disponibilità infinita. Eppure di deposita sul fondo, in un grumo indistinto di frustrazione, rabbia, forse disgusto.
Prima ancora di vedere Berlinguer, la grande ambizione di Andrea Segre, un disagio, purtroppo familiare, è riaffiorato in conversazioni tra amici. Qualcosa di profondo nella storia della sinistra, che discende da Gramsci e che arriva fino a Berlinguer (ne ho già parlato a proposito di Matteotti su doppiozero). Ha a che fare con l’idea di egemonia e meriterebbe una discussione a parte. Perché la sinistra, sempre ampia, varia, paga prezzi alti quando alle scadenze elettorali si presenta con tutte le proprie diversità; ma paga prezzi anche più alti quando le sopprime.

Il film Familia è un’analisi complessa delle strutture di potere e del male che si annida dentro tanti nuclei familiari. Una narrazione che va contro le retoriche edificanti e conservatrici, tanto in voga nelle destre contemporanee
Il 6 giugno 1935 esce nelle sale inglesi “Il club dei 39/The 39 Steps” di Alfred Hitchcock, tratto liberamente dal romanzo di John Buchan del 1915 “I trentanove scalini” e sceneggiato da Charles Bennett e Alma Reville. È uno dei film più emblematici della fase britannica del Maestro; e tra quelli più ricchi di temi e stilemi che segneranno gran parte delle sue opere a venire. Ne è protagonista Richard Hannay (Robert Donat), canadese a Londra, che dopo aver assistito a uno spettacolo del mentalista Mister Memory (Wylie Watson) si ritrova coinvolto in un complotto internazionale quando la misteriosa Annabella Smith (Lucie Mannheim), che gli aveva chiesto aiuto, viene pugnalata subito dopo avergli rivelato l’esistenza di una rete di spie -intenzionata a trafugare un segreto militare- il cui capo è riconoscibile dall’assenza di una falange del mignolo destro. Accusato dell’omicidio, Richard fugge in treno e, braccato, bacia una passeggera, Pamela (Madeleine Carroll), per sfuggire alla polizia. Non sarà che l’inizio di una serie di complicati eventi che vedrà le vite dei due intrecciarsi inesorabilmente prima di confrontarsi un’ultima volta al cospetto di Mister Memory con il professor Jordan (Godfrey Tearle), deus ex machina dell’organizzazione.
Nel 1930 a Los Angeles nasceva il Motion Picture Production Code – detto “codice Hays” – che mirava a controllare la moralità dei film americani dopo l'arrivo del sonoro
inquant’anni fa, il 7 marzo del 1975, usciva nelle sale ‘Profondo Rosso’, il più famoso tra i venti film diretti da Dario Argento per il grande schermo. Si svolge a Roma la vicenda del pianista jazz inglese Marc Daly, (interpretato da David Hemmings) che assiste all'omicidio della vicina di casa e giovane sensitiva Helga Ullmann (interpretata da Macha Méril) e delle sue indagini accompagnate da una sequenza di omicidi. Ma è a Torino - città esoterica, vertice dei triangoli di magia bianca (Torino, Lione, Praga) e di magia nera (Torino, Londra, Chicago) - che il regista girò gran parte delle scene del thriller horror. Il ‘maestro del brivido’ - come è soprannominato Dario Argento – famoso in Francia, Giappone e Stati Uniti, oltre che in Italia – scelse il capoluogo piemontese perché è “il luogo dove i miei incubi stanno meglio”. E le tormentose ossessioni sono la migliore fonte di ispirazione per una sceneggiatura dell’orrore. Intuizione che Argento ebbe visitando Torino fin da bambino, tra simboli esoterici e richiami alchemici, satanici e occulti.
Paul Schrader: «Sempre meno a mio agio nel mostrare la violenza, il digitale ha cambiato tutto»
Il passato pesava duramente sulla coscienza del sacerdote, del giocatore e del giardiniere figure centrali degli ultimi tre film di Paul Schrader. Il protagonista del suo nuovo lavoro, Oh Canada, in concorso a Cannes, dove Schrader non era più stato dai tempi di Patty Hearst (1988), si rivolge al suo passato direttamente, affidandolo a un film. Leonard Fife (Richard Gere, di nuovo con il regista 44 anni dopo American Gigolò) è un eroe del documentario d’inchiesta in Canada, dove si è rifugiato per protesta contro la leva in Vietnam, una scelta che – insieme a un esposè sull’uso del Napalm che avrebbe «in parte ispirato Apocalypse Now»– è diventata parte del suo mito.GRAVEMENTE malato, alla vigilia della morte, Fife convoca un ex allievo (Michael Imperioli) e una troupe di ex studenti che hanno avuto un’autorizzaione dalla tv pubblica, per ripercorrere la sua vita, raccontandola guardando diritto dentro all’occhio dell’obbiettivo, e agli occhi di sua moglie (Uma Thurman). Per questa esplorazione della mortalità, della memoria, e del raccontare, che è poi al cuore del far cinema e ha sicuramente anche dei risvolti personali, Schrader ha scelto di adattare un romanzo dell’amico Russell Banks, I tradimenti (Foregone), dai cui libri aveva già tratto uno dei suoi film più belli Affliction (1997).
Banks, che aveva scritto I tradimenti prima di ammalarsi di cancro come il protagonista del romanzo, è morto nel 2023. Il film, che Schrader aveva iniziato prima della sua scomparsa, è dedicato a lui. Ma, se in Oh Canada (titolo che Banks voleva, ma non ha potuto dare al libro per un problema di diritti) c’è una traccia di elegia, è l’elegia affilata, provocatoria, che ci si può aspettare da un autore come questo.
David Lynch è morto e io non ancora. Allora posso dire brevemente che il cinema di Lynch per me è sempre stato la gioia dell’inquietudine. Premetto che non mi è mai fregato nulla di chi avesse ucciso Laura Palmer, a me interessava il suo stile inconfondibile, quel non sapere mai dove ti avrebbero portato le sue immagini ipnotiche, non era lo spettatore a guardare i suoi film, era il contrario: erano i suoi films (mettiamo il plurale) che ti fissavano, ti scrutavano in cerca dell’ignoto che alberga in ognuno di noi.